Distante/Diverso.

Villaggio globale

Luigi Toiati

Distanze e diversità forse sono incommensurabili è il consumismo il vero amalgama del villaggio globale

“Non ci sono passeggeri sulla nave spaziale Terra. Siamo tutti parte dell’equipaggio.”
(Marshall Mc Luhan)

Li chiamano “foreign fighters”: indigeni o emigrati di seconda generazione, se ne vanno all’estero a fare i combattenti, e spesso se ne tornano a casa con le stesse intenzioni. Una volta tanto il vezzo linguistico babelico qui ha senso, perché proprio costoro sono gli abitanti più legittimi del villaggio globale.

Vado a spiegarmi.
Prendiamo a spunto la frase di Mc Luhan che ho ricordato: le navi spaziali con il progresso tecnologico accorciano tempi e distanze, e prima o poi lo spuntino fuori porta lo faremo su Proxima Centauri.
Così avviene con aerei, treni e altri generi commestibili, che azzerano o giù di lì tanto il distante quanto il diverso da noi.
Il distante è sempre meno distante, e il diverso sempre meno diverso.

Il Gran Tour del XX secolo
Ora. Per la mia generazione, quella del XX secolo, vigeva il Gran Tour al contrario, ossia viaggiare “in, verso” Inghilterra, Francia, Europa o altrove. I posti apparivano distanti, la gente diversa.
Le lontananze e i tempi erano minori rispetto a quelle dei viaggiatori che ci avevano preceduto, ma di gran lunga maggiori di quelle odierne, e ci facevano percepire tanto la distanza quanto la diversità di terre e gente diverse dalle nostre. C’era come uno stupìto avvertire un “nostro e loro”, “noi ed essi”, “qui e laggiù”.
In quei paesi la gente faceva cose diverse, mangiava uova fritte al mattino, indossava la bombetta durante il giorno, portava la “baguette” sotto le ascelle sudate della tuta da operaio, o seppelliva i propri morti sulle torri del silenzio anziché al cimitero comunale. Parlava in modo diverso, non ci si capiva. Spesso la lingua la si apprendeva passando un mese a lavar piatti, esperienza non dissimile, per chi al massimo arrivava al supermercato vicino casa, da quella di Livingstone alla scoperta delle Cascate Vittoria.

Cercando l’alibi
L’altrove era evidenziato, l’”estero” coincideva con lo stare lontano da casa, dalla mentalità nella quale si era cresciuti, dalla lingua, dai vestiti, dalle sembianze, dai modi, della “nostra” gente. Esso forniva l’”alibi” dell’allontanarsi; non a caso “alibi” significa “un altro dove”.

L’Europa si girava in treno o con l’autostop, quindi con tempi più dilatati, l’Inghilterra per sovrammercato implicava il traghetto sulla Manica. Il charter attenuava le distanze, ma era un extra, come chiedere oggi ad un ragazzo di viaggiare in Business.
A Berlino un muro secava internamente un’ulteriore diversità e distanza, paradossalmente poco più di venti metri separavano la cultura della Coca Cola da quella del Comitato Inquilini.
In Spagna, Portogallo e Grecia si stava attenti a non far gli spiritosi, che i dittatori non amavano troppo la diversità dei turisti zazzeruti e sapientoni come noi, né la loro distanza antropologica. E quando ci si tornava dopo che una rivoluzione aveva sovvertito tutto, quest’ultima a sua volta era percepita tanto distante e diversa dal nostro mondo di Andreotti e Fanfani.
Il viaggio in India o quello in America ci assicurava definitivamente della non esistenza delle Colonne d’Ercole, ma confermava anche la distanza e diversità della meta raggiunta.
E tutto questo era elettrizzante, proprio perché marcava il confine del “diverso e distante”.
Non mi sogno neanche lontanamente di parlare di “buoni vecchi bei tempi”, mi preme sottolineare quell’esprit du temps fatto, appunto, di distante e diverso.

L’amalgama
La tecnologìa e il villaggio globale hanno creato un mondo essenzialmente amalgamato, dove per convenzione più che per convinzione si stabiliscono parametri di uguaglianza, non diversità, e non distanza.
Giorni fa alla Radio un giornalista parlava di eccidi nel Mali come di “paese vicino”: posso assicurare che ignoro totalmente ove sia esso dislocato, ma ho la nozione che non sia certo all’altezza di un paesino a qualche chilometro da casa mia.

La nostra (falsa e indotta, a mio giudizio) percezione del mondo è oggi quella di un posto raggiungibile, e dove le persone se non uguali come colore della pelle o usi e costumi, lo sono almeno per natura.
Niente da obiettare, in teoria.
Spesso tuttavia mi vien fatto di chiedermi quanto questa uguaglianza non sia altro che un nostro bisogno di economizzare sforzi mentali, accorciando e sintetizzando, per nostra convenienza, e per complicità con il consumismo globalizzato, distanze e diversità che sono in realtà incommensurabili.

Il viaggiatore di decenni fa una volta all’estero cercava a cena la pasta, disposto a pagare l’orrendo tributo di mangiarsela scotta. Oggi ci stiamo convincendo che scorpioni fritti e locuste in salmì sono squisiti, così da prepararci ad un ulteriore azzeramento del distante e diverso. Quindi, siamo passati da un consumismo localizzato, a un consumismo, appunto, globalizzato.

La non diversità è un mantra della nostra società
Costi quel che costi, anche negare l’evidente differenza di abitudini e comportamenti altrui.
Positivamente, i bambini a scuola riconoscono nell’asiatico e nell’islamico il loro compagno di classe, e i loro padri, avvezzi a trovare l’apoteosi dello spaghetto a Londra, e quella della cavalletta fritta a Milano, hanno abolito (a parole) le distanze sociali, culturali e religiose tra i popoli. E quelle geografiche.
Analogo mantra è dunque anche quello della non distanza, sia fisica che mentale: l’’”estero” oggi ha più sugo per me se ci posso trovare Coca Cola e Big Mac, visto che anche a casa li ho sostituiti agli spaghetti, io colonizzatore colonizzato a mia volta, visto che l’America infatti, per usare un’orrenda espressione del nostro Matteo Renzi al governo, ci ha “taggati” (brrrr!) tutti.
Meravigliosamente bene.

Il mondo perciò non è più trasversale né verticale, ma solo orizzontale.
Divertente anzi è notare che quando diciamo che gli altri sono “come noi” pensiamo a tutti i modi possibili per trasformarceli, cosicchè la nostra pigrizia sociale non ci affatichi troppo ad adattarci noi a loro.

Il foreign fighter è qualcuno, lo sappiamo, che vive in una società, quella occidentale, che non gli offre princìpi.
Mai la disperazione dei giovani è stata così alta, mai la loro energìa così tanto non incanalata.
Anzi, vecchi ideali suonano come “reazionari” o “preistorici”, la pace è promossa e la guerra è rimossa, al punto che quell’”irresistibile amore per la guerra”, sfogo sociale naturale del quale scrive Hillman, è stato a sua volta bandito dalla nostra società “dell’accoglienza”.

Alcuni giovani, compressi e repressi, cercano altrove, cercano una violenza motivata e legittimata, e la chiamano ideologìa, religione, Jihad, o come vi pare.
E quell’”altrove”, che coincide sempre più con il significato di “alibi”, lo trovano in posti che non sono più percepiti né come distanti né come diversi, e che quindi favoriscono un fluire che fino a ieri non si sarebbe manifestato.

Faccio un esempio. La mia generazione ha preso in considerazione l’idea di sparare, e qualcuno nelle BR ci è anche finito. Ma se si fosse proposto loro di arrivare fino in Afhanistan o Rwanda per sparare, di certo la distanza e diversità allora percepite avrebbero se non bloccato quantomeno messo in dubbio questa opzione. Peraltro, ideali e obiettivi da perseguire, ce n’erano per tutti qui a casa, brigatisti inclusi. Ed erano autoctoni, non “multiglobali”.
Oggi no, i giovani emigranti del terrorismo sono cresciuti all’ombra dell’albero del non valore, ma anche del non diverso e non distante, e si è così creata, secondo me, l’ombra nera, l’anima maledetta, della multiglobalità, quella della raggiungibilità della violenza.
In fondo, il supermercato dove comprarsela non è poi così distante, e i commessi non sono poi così diversi.
E quindi questi giovani emigranti della barbarie diventano, a loro volta, consumatori di un “nuovo mercato”. Affermazione cinica, lo ammetto, ma credo che la stessa strumentalizzazione del reclutamento, la mitografìa dell’apparato aggressivo, la coreografìa delle decapitazioni, i fuochi artificiali degli attentati, siano altrettanti prodotti commerciali da vendere a questi consumatori di bocca buona che non si accorgono di esser utilizzati se non quando è troppo tardi per tornare sui propri passi.

Sulla nave spaziale l’abolizione di paratìe e divisioni sta favorendo l’antropofagìa sociale da parte di un gruppo minore, che sta divorando, o vorrebbe farlo, il resto dell’equipaggio. Chi dall’Europa va ad unirsi ai cannibali lo fa in virtù di un suo non percepirli né distanti né diversi. Ma paradossalmente, una volta arrivato, scopre che proprio i cannibali percepiscono “noi” tanto diversi da dover venire eliminati, e tanto distanti da doversi scomodare a venirci ad eliminare a domicilio.
E così spesso chi è partito torna, non negando più ma violentemente affermando diversità e distanza, trasformato in uno zombie che, proprio perché spaventato da così tanta diversità e distanza, la annulla con il terrorismo a domicilio.
Che, a sua volta, è un prodotto del tutto occidentale: lo inventarono gli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, quando si resero conto che bombardare case, scuole, stazioni e ospedali in Germania era più proficuo che bombardare fabbriche di armi, perché la perdita dei propri cari e della propria città fiaccava il morale e le motivazioni delle truppe al fronte.
Parallelamente a quanto avviene in Europa, il terrorismo segue flussi tanto di emigrazione, quanto di immigrazione: sia noi che i criminali vendiamo a chi parte e a chi arriva pacchetti preconfezionati di parole vuote.
Chiamateli pace o guerra, mitra o surgelati, chador o bikini, democrazie o terrorismo ma sempre di consumismo stiamo parlando.
Lasciarsi manipolare, da una multinazionale del detersivo o da una del terrore, significa sempre sottostare ad un consumismo.
E’ la consapevolezza di cosa o di come si “consuma” quanto sopra, che fa la differenza.

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