Paolo Samarelli
Siamo tutti belgi, tutti cittadini di Bruxelles e questo è giusto dopo il 22 marzo 2016, così come è stato giusto essere parigini il 13 novembre 2015. Siamo stati a ragione e sentimento cittadini di tutti i luoghi del mondo dove il terrorismo di radice fondamentalista (e non solo) ha colpito.
Il racconto capillare.
Restano però zone d’ombra dopo il massiccio flusso di informazioni sul come e sul dove. Abbiamo resoconti capillari da tutti i media, social network inclusi.
Breve come un twett o più estesa la cronaca é quasi tutta condivisibile (qua e là qualche bufala fisiologica). Ogni secondo arriva qualche particolare in più: il taxi, la mappa, trovata in un rifugio, dell’aeroporto di Bruxelles, le catture per dirne qualcuna. Molti osservatori hanno rilevato come lo stato Belga non sia attrezzato sufficientemente a contrastare non il terrorismo ma anche un qualsiasi tipo di emergenza criminale. Si è detto persino che il Belgio è uno Stato fallito (non ci pare a guardare i parametri economici). Si è fatto notare che i servizi segreti (l’Intelligence come piace sempre più chiamarli) sono ben più attrezzati altrove e restando in Italia i nostri servizi segreti sono stati considerati eccellenti per l’esperienza decennale acquisita nel contrasto a terrorismo e mafie. Tutto ciò si omogeneizza con l’emergenza immigrazione, la situazione turca, la guerra in Siria e il pericolo Libia e fermiamoci qui.
Le disuguaglianze
Poca enfasi però su uno dei motivi alla base di tutto questo. La differenza tra ricchi e poveri, Paesi e persone. Le diseguaglianze che caratterizzano e sono l’enzima catalizzatore delle violenze e della criminalità in generale, dell’orrore e della sofferenza in particolare. La riflessione sullo stato del sistema sociale ed economico che è il ritratto della nostra Europa a moneta unica sembra incompleta. Si potrebbe e dovrebbe riflettere meglio anche se è forse più rassicurante ricostruire esattamente le dinamiche dei fatti, sottolineare le colpe delle polizie o l’insipienza dei governi.
In un articolo di Yannick Van der Schueren su un giornale non certo famosissimo, La tribune de Genève, si trova una descrizione precisa di quello che nella città di Bruxelles viene definito “le croissant pauvre”, la mezzaluna povera, come vengono chiamati i frammenti di quei quartieri che ospitano l’immigrazione (e il disagio) di prima, seconda e terza generazione (Forest, Saint-Gilles, Anderlecht, Molenbeek, Ville de Bruxelles, Saint-Josse, Schaerbeek).
Qualcosa su questi quartieri è arrivato sui media per sottolineare che nella mezzaluna povera sono ubicati tutti i rifugi (nei 126 giorni dall’attentato di Parigi) di Salah Abdeslam prima della cattura.
Densamente popolato il croissant: 30.000 abitanti per km2, quattro volte la media cittadina. La forma della povertà disegna sulle mappe una mezzaluna attorno al centro cittadino e all’interno del croissant la disoccupazione è al 30%, fino al 60% tra i giovani. Bruxelles è divisa in due dalla sua via d’acqua, il canale attorno al quale si agglutinano i quartieri ex industriali (negli anni ‘60 e ‘70 immigrazione di turchi e marocchini) oggi ancora più impoveriti e trasfigurati. Tra il 2005 e il 2010 ai residenti si sono aggiunte le nuove popolazioni migranti in fuga da guerre e condizioni insostenibili nei loro Paesi.
Molenbeek, il quartiere dei terroristi, come viene ormai chiamato, aveva persino conosciuto il grande calcio negli anni ’70. L’Rwd Molenbeek aveva vinto il campionato belga nel 1974-75 e si era quindi qualificato per la Coppa Uefa nel 1977. Uscì solo in semifinale con l’Athletic Bilbao (1-1 andata in Belgio e 0-0 a Bilbao) che perse poi la finale con la Juventus di Trapattoni. Tutto ciò ci sembra un indizio di relativo benessere dell’epoca.
Oggi, dai dati raccolti in vari studi , la zona del croissant è più povera non solo rispetto a quegli anni ma anche alla fine degli anni ’90 la situazione era migliore.
Ci sono dossier del Centre Bruxellois d’Action Interculturale sulla povertà a Bruxelles e nel decennio 2000/10 altri studi hanno sottolineato il problema e il disagio di quella che è anche la città sede del parlamento Europeo, la capitale della istituzione Europa. Nella città povera il radicalismo religioso ha copertura e protezione. C’è di tutto: dal commercio d’armi a quello di droga passando per la falsificazione dei documenti e quindi della micro e macro criminalità. Nel croissant pauvre c’è l’humus necessario per fare proseliti, nascondere terroristi e fuorilegge, e tutto questo si sapeva da tempo. Bastava leggere appunto gli studi della fine del secolo scorso di Christian Kesteloot (professore di Geografia sociale ed economica presso l’università cattolica di Leuven in Belgio) incaricato dalle associazioni e dalla autorità ad analizzare il territorio di Bruxelles. Il risultato sulle mappe fu una città marchiata a fuoco dal suo croissant. E lo è tutt’ora come abbiamo visto.
Un bell’articolo attuale e documentato, con quel che serve da sapere, sulla trasformazione degli abitanti del croissant pauvre da criminali di strada a jihadisti è di Fabio Tonacci su Repubblica.
Le periferie.
Quindi il radicalismo religioso, per fermarci a questo, si nutre e fa proseliti e combattenti suicidi anche grazie a un disagio che non è differente da quello delle periferie del mondo. Le periferie, ben descritte da Pier Paolo Pasolini, non solo soltanto luoghi ma anime e persone di frontiera. Quanta differenza passa tra le croissant pauvre di Bruxelles, le banlieues di Parigi e Tor Bella Monaca o Scampia? Poca. Qua e là emergono discontinuità non sostanziali e determinate dal genius loci, lo spirito del luogo. Sono la povertà e l’ingiustizia a creare violenza, ribellione e sopraffazione. Di questo è responsabile un sistema che chiamiamo democratico ma che ci presenta invece la restrizione delle condizioni di dignità e di vita. Forse i cittadini del mondo hanno bisogno d’altro e la globalizzazione dell’informazione fa il resto nella quasi totale assenza di ipotesi intelligenti che portino, se non a una spiegazione dei fenomeni, almeno alla loro corretta interpretazione. C’è infine la interminabile sequela di ovvietà sui social, tanto per confermare una presenza. Politici in testa, tutti a twittare cordoglio e partecipazione quando ci si aspetterebbe altro che 140 caratteri. Raro trovare qualcosa di significativo in questi interventi.
Storytelling.
Anche Papa Francesco intuisce e accusa “le differenze” e bisogna dire che non perde occasione di farlo. Fuori da questo ragionamento c’è solo il desiderio di rimanere nei propri privilegi e perpetuare condizioni di vantaggio. Tutto ciò meriterebbe un’analisi sempre aggiornata e costante. Un giornalismo d’inchiesta e non d’effetto, per riportare la convivenza democratica nel suo vero alveo. Ovviamente la cronaca dei fatti terroristici è fondamentale ma quando diventa maniacale lascia chi ne usufruisce con la sensazione di esserne fuori per miracolo e infine con una improbabile linea netta tra buoni e cattivi. I commenti e le analisi sui media certamente ci sono ma spesso chi interviene a caldo deve scrivere o dire quasi senza riflettere e spesso finisce per scrivere o dire cose scontate spinto dall’esigenza di coprire uno spazio. La ricerca della narrazione (ormai “storytelling”) agisce direttamente sui sentimenti del lettore-spettatore. Il dolore dei sopravvissuti e dei parenti, la vita delle vittime che poteva essere e non è stata. L’informazione del dolore non è solo qualche programma televisivo che si alimenta del desiderio investigativo degli spettatori-lettori. In fondo i gialli e il genere horror hanno sempre funzionato. Se la storia è vera poi ancora meglio e tira molto di più. Sembra di leggere la didascalia di tanti film :”Basato su fatti realmente accaduti”.