Marco Giannini
Qualche giorno fa il governo cinese ha imposto una barriera doganale del 46% su una varietà di acciaio prodotto dalla compagnia anglo-indiana Tata Steel Europe Limited in Galles, gettando nel panico i lavoratori della filiera nel distretto di Talbot e innestando manifestazioni dei lavoratori e polemiche nei confronti del parlamento e del governo britannico, accusati di bloccare il corrispettivo innalzamento di barriere doganali dell’intera Ue sulle importazioni di acciaio (probabilmente di qualità più scadente) dalla Cina.
La Cina si allontana.
Questo tipo di protezionismo economico – da parte di uno Stato che controlla e condiziona ancora pesantemente l’orientamento generale della propria economia – si scontra con le regole dell’economia globale di mercato, ma a un livello macroeconomico davvero troppo alto per non creare problemi globali.
Il fatto è che l’economia cinese sta rallentando, in particolare la richiesta di acciaio
Per comprendere come il peso del mercato cinese sia ormai decisivo nelle sorti dell’economia planetaria, il britannico The Guardian ha comparato l’impatto che il calo della domanda di beni importati dal gigante asiatico sta producendo sulle economie più avanzate, in termini di minori esportazioni.
Il risultato è un interessante grafico interattivo che visualizza, sia pure in maniera molto astratta, il PIL di ciascuno degli attori (in inglese GDP – rappresentato dai cerchi rossi in proporzione tra loro) e il buco creato dal calo delle esportazioni in Cina. Trascinando il cerchio rosso cinese verso il basso o verso l’alto l’utente può constatare che il deficit rispetto all’anno precedente nelle esportazioni (contate in milioni di dollari) varia proporzionalmente, e osservando lo slittamento delle altre economie sull’asse verticale può osservarne l’incidenza percentuale sul totale del PIL di ciascun Paese.
Dieta dimagrante anche nel 2016.
Ai piani più alti, meno influenzati dalla dieta dimagrante del mercato interno cinese, si pongono i grandi esportatori (sovente di beni di lusso, come l’Italia) che commerciano in tutto il mondo : Regno Unito, Francia, Paesi Bassi, Italia, India, Giappone, Stati Uniti. Ma le economie che subiscono un maggiore impatto sono gli esportatori locali, meno ramificati a livello planetario: Indonesia, Australia, Nuova Zelanda. L’Italia patisce una contrazione di vendite in Cina pari a 1,98 miliardi di dollari, lo 0,1% circa del Pil nostrano.
I dati disponibili si riferiscono ai primi 7 mesi del 2015 comparati allo stesso periodo del 2014, ma sappiamo dalle fluttuazioni delle Borse mondiali che il trend non sta cambiando granché nel 2016. Dopo anni di crescita del mercato interno, la frenata della crescita cinese è ormai accertata.
La Cina è davvero grande e molto popolosa. Basta studiare i dati riportati da un altro interessante grafico interattivo dell’Economist per rendersene conto.
Il grafico sovrappone il nome di Paesi col dato equivalente più vicino per prodotto interno lordo, prodotto interno lordo pro capite, popolazione ed esportazioni, a ciascuna delle 33 province cinesi, usando anche una heat map (a scala di colore) per visualizzare a colpo d’occhio valori più alti. Nella sola provincia centrale dell’Hubei vivono 57,1 milioni di persone, praticamente quante in Italia.
Eccome se ci riguarda.
Un’altra conseguenza del raffreddamento dell’economia cinese è data dalla contrazione degli investimenti nel resto del mondo. Ha provato a misurare i maggiori il South China Morning Post, quotidiano in lingua inglese di Hong Kong.
Nel grafico interattivo i colori rappresentano la tipologia di investimenti (dalla tecnologia alla finanza, dall’agricoltura all’estrazione di metalli e così via), l’ampiezza delle semisfere (tutte esplorabili al mouse-over, cioè al passaggio del mouse sopra ogni occorrenza) rappresenta il valore in miliardi di dollari. I dati sono ordinati lungo linee orizzontali cadenzate per anno, dal 2005 al 2014, e si riferiscono a un centinaio di Paesi in cui si è riversata la pioggia di renmimbi.
Una crescita sensibile si registra dal 2010 al 2013, con lo sviluppo e la commercializzazione di nuove tecnologie soprattutto nel campo estrattivo, finanziario e tecnologico. Ma nel 2014 il rallentamento è evidente.
Nell’ultimo decennio più di 300 miliardi di dollari sono stati investiti all’estero da compagnie private o pubbliche cinesi, di cui soltanto in Canada circa 30 miliardi di dollari per consolidare l’estrazioni di combustibili fossili (15,1 nella Nexen). Diverse banche americane sono state salvate dal fallimento con soldi pubblici dopo la crisi dei mutui del 2008, ma solo in seguito ad accordi finanziari tra il governo Usa e quello cinese.
In Italia hanno investito soprattutto la Huawei (telecomunicazioni in Vodafone e nell’olandese Vimpelcom che ha affari in Italia) e la Safe (energia, in Eni, Enel e Ansaldo).
Facciamocene una ragione, siamo dipendenti del gigante cinese. Si spera non a tempo indeterminato.