Marco Giannini
Bigdata, il trucco c’è (nello sport) ma non si vede
Matthew Dellavedova, playmaker di riserva dei Cleveland Cavaliers, è sceso in campo giovedì 31 marzo scorso contro i Brooklyn Nets senza il solito braccialetto in stoffa e plastica targato Whoop.
La partita in questione aveva scarsa importanza, i Cavs sono già qualificati ai playoff mentre i Nets – una delle peggiori franchigie Nba – hanno già la mente all’off-season; Dellavedova poi non era in giornata: 0 su 6 al tiro in 18 minuti circa, prestazione da dimenticare. Invece la storia del braccialetto è più interessante.
Il braccialetto Whoop è progettato per registrate il battito cardiaco, la temperatura corporea e i movimenti del corpo durante la partita (o anche durante il sonno o sotto la doccia, perché no). Somiglia a Fitbit o al popolare Jawbone, ma è prodotto pensando proprio ai professionisti, perché a questi dati ne somma altri che un normale tracker dilettantistico non può registrare: temperatura e umidità dell’ambiente, fattori di recupero polmonare e cardiaco e via elencando. La lega Nba lo ha vietato proprio in marzo dopo essere stata informata che Dellavedova e altri compagni di squadra (tra i quali il campionissimo Lebron James) ne facevano uso continuato; ufficialmente il divieto è arrivato per motivi di sicurezza (nessuna parte rigida deve essere indossata durante il gioco), in realtà si tratta di una delle fin qui non molto numerose reazioni all’invadenza della tecnologia, da parte del sistema sportivo professionistico, il quale ha bisogno di mantenere intatta la sua aura, basata sul concetto di competizione alla pari.
In allenamento l’utilizzo di apparecchi di registrazione del movimento e dei biometrics è ormai diffusissimo (19 squadre su 30 in Nba), il più comune è l’accelerometro Catapult , anch’esso vietato dal direttivo Nba. La sua specialità è di essere dotato di un precisissimo congegno GPS che registra la posizione del giocatore al millimetro, e per questo anche la NFL (lega professionistica di footbal) lo ha proibito durante le partite (ma si sa che nel football i controlli sono molto più laschi).
Se però si esce dal novero dei self-tracking devices e ci si accosta alla tecnologia legata alle riprese televisive, allora il Bigdata la fa da padrone: sempre relativamente al basket professionistico USA, diversi siti internet forniscono statistiche magnificamente visualizzate dei giocatori NBA, come Buckets di Peter Bershai, che offre tutti i dati di scelta di tiro, minutaggio, rimbalzi, assist, falli e così via lungo una o più delle ultime 17 stagioni, per ciascun giocatore.
Un’altra valida applicazione è BallR, sviluppata da Todd Schweinder : compara le percentuali di realizzazione di ogni giocatore nella stagione corrente con le medie dei suoi diretti avversari e della lega intera.
Chiaramente quest’uso massivo del Bigdata e dei suoi validi applicativi ha un riflesso sulla valutazione dei giocatori stessi (per esempio in fase di mercato), sul loro comportamento in campo (le star lavorano duro per migliorare le loro statistiche per spuntare migliori contratti pubblicitari), ma anche nel lucroso mondo delle scommesse sportive (dove si può scommettere ormai anche su chi vincerà il titolo di miglior realizzatore, o su chi avrà la percentuale più alta). E all’interno dei meccanismi di riequilibrio della Nba, il Bigdata viene in soccorso dei talent scout che seguono i giovani fin dall’high school, spingendoli verso scelte che premiano la nascita di nuove star indipendentemente dalla qualità della squadra in cui giocheranno (sulla quale quegli stessi giovani possono influire in bene o in male), come ci racconta quest’articolo di The Atlantic.
Alla pari della pallacanestro, il tennis è uno sport fortemente sfruttato dalla tecnologia applicata alle riprese televisive, a cominciare dal fatto che il campo di gioco in ogni torneo del circuito maggiore è ormai circondato da telecamere. E dalle riprese il passo verso l’analisi e la visualizzazione è breve.
Ce ne rende unl’idea il sistema di analisi proposto dal data analyst Damien Saunder basato sulla tecnologia di riprese HawkEye, ma funzionante anche attraverso dei software di telemetrics direttamente applicati alle riprese televisive. La profondità di risultati e la possibilità di automazione è strabiliante, open source (mentre HawkEye rimane uno strumento esclusivo in possesso dell’ATP) e facilmente utilizzabile dalla grande informazione sportiva.
Le informazioni in real-time possono così rientrare direttamente dalla finestra da cui sono uscite: il network che trasmette una partita ha oggi sempre più strumenti a disposizione per sostenere la telecronaca e il commento, sulla base di statistiche accurate e visualizzate.
Anche nel tennis però al largo uso di statistiche si affianca tutt’altro tipo di innovazione tecnologica, soprattutto nel tracking delle prestazioni; il tennista Rafa Nadal è stato il primo professionista ad installare un dispositivo GPS inserito direttamente nella racchetta di gioco, e la lega ATP glielo ha permesso, probabilmente convinta dal fatto che Nadal è stato fino a qualche anno fa il più forte tennista in circolazione: http://www.dailymail.co.uk/sport/tennis/article-2917423/Rafael-Nadal-uses-microchipped-racket-record-shot-type-world-No-3-records-straight-set-victory-against-Mikhail-Youzhny.html
Se in fase di allenamento questo sistema lo assiste nello studio e nel miglioramento dei suoi colpi, è anche vero che il suo utilizzo deve essere ancora pienamente regolamentato: troppa distanza nelle rispettive possibilità economiche rischia di scavare un solco insuperabile tra il campione che investe molto denaro in tecnologia e il professionista di rango medio-basso che si affaccia sulla scena internazionale. Va configurandosi così una sorta di “doping tecnologico”, appannaggio delle star e tollerato dalle leghe professionistiche, che affianca il doping tradizionale (chimico e oramai anche chirurgico).
L’altro punto sensibile è la sempre maggiore predittività degli eventi sportivi, in relazione al mondo delle scommesse. Un applicativo legato al motore di ricerca Bing (Microsoft) è stato utilizzato l’anno scorso per pronosticare i risultati di tutti i turni ad eliminazione diretta in Champions League: a parte alcune sorprese (la Juventus ha sconfitto il Real Madrid di Ancelotti grazie a un insperato gol di Morata, ma Bing aveva pronosticato la vittoria de los merengues), le analisi basate sui telemetrics hanno sempre colto nel segno. Anche se in realtà qui l’ausilio tecnologico imprime al discorso una piega decisa verso il machine learning (tutto un altro paio di maniche e di visualizzazioni), l’uso della tecnologia nella ripresa e analisi nel calcio pro va diffondendosi soprattutto nei campionati ad alto valore aggiunto in termini di scommesse, come la Premier League: nel 2014 l’Arsenal ha speso milioni per dotare il proprio terreno di gioco di un modernissimo sistema di ripresa e analytics.
Le implicazioni si fanno insomma abbastanza ingombranti per restare nel puro ambito sportivo, e forse è proprio lo sport che, come in molti pensano, dovrebbe restare fuori dai grandi discorsi. Fatto sta che – parafrasando il filosofo Umberto Galimberti – quando l’etica insegue (faticosamente) la tecnologia essa diventa patetica, perdendo il ruolo supremo che a lume di naso tutti le concediamo. E trascina con sé la pratica sportiva, in una terra in cui le condizioni di partenza non sono più le stesse per tutti, partecipanti e spettatori.