Marco Giannini
Sondaggi elettorali e altri malanni sociali.
“Dopo aver saputo dai sondaggi che una persona su due è infedele, si tranquillizzò. Suo marito non la tradiva.” Guido Rojetti, L’amore è un terno (che ti lascia) secco, 2014
Potessimo sapere in anticipo quel che gli altri pensano di noi, faremmo tutti molti meno errori. Ma sappiamo di non potere.
Forse proprio per questo motivo abbiamo inventato i sondaggi d’opinione, e li abbiamo successivamente trasformati da semplice indagine conoscitiva a inferenza, quindi a specchio dell’efficacia nel convincere gli altri a un determinato valore, più precisamente nel piegarli verso un giudizio condiviso e “mitigato”.
Gia negli anni ’50 Marshall McLuhan ne “La sposa meccanica” metteva in guardia contro la standardizzazione del pensiero attraverso la mimesi e l’accondiscendenza che un sondaggio d’opinione, il più vasto e capillare possibile, può imprimere nella mente del pubblico, in particolare quello televisivo.
Il sistema è semplice: se parecchie persone hanno una data opinione essa tende a trasformarsi in un dato di fatto (“senza alternative” si sente dire spesso), quindi molte altre persone ancora indecise sull’argomento saranno orientate per inerzia a (ri)prendere quella stessa opinione: basterà informarle per tempo. E convincerle.
La retorica serve proprio a questo, e nella sua versione moderna – propaganda politica e pubblicitaria – ha buon gioco a diffondersi capillarmente attraverso i media, in coalescenza con i sempre più raffinati metodi di indagine statistica e costruzione dell’opinione comune: da Bloomberg a Berlusconi, negli ultimi decenni diversi leader politici hanno costruito il loro successo elettorale proprio sull’abilità di costruire consenso attraverso lo studio dei sondaggi e il controllo di network di informazione.
Overdose di grafici nelle primarie USA 2016.
L’importante insomma è esserci, dire la propria, possibilmente senza paura di essere sconfessati; quindi servono tanti numeri, e un po’ di scienza che li ordina e ne ricava un significato d’insieme. La politica è oggi il campo di applicazione per eccellenza, e l’infografica uno strumento potente nell’evidenziare le tendenze che emergono dai dati, come ci mostra uno dei giornali che più – e meglio – ne fanno uso, il New York Times, sulla pagina dedicata nell’edizione online.
Il conteggio dei delegati nella competizione elettorale delle primarie statunitensi è una corsa verso il traguardo di novembre 2016, quando i due contendenti del sistema politico (stabilmente bipartitico) si contenderanno la presidenza della Casa Bianca.
Donald Trump e Hillary Clinton sono i due superfavoriti al momento; se il primo rappresenta una decisa rottura nel rapporto tra l’elettorato repubblicano tradizionale – ormai secondo gli analisti outraged (“imbiestalito”) – e i vertici del partito, la seconda – ex first lady – incarna la disciplina di una scelta “sicura”, che l’America ha già compiuto diverse volte nella sua storia. Tanto sicura che non solo l’estabilishment economico più solido del pianeta, ma tutto l’apparato burocratico stelle e strisce del partito democratico la appoggia senza condizioni. Ce lo ricorda lo stesso New York Times dedicando un interattivo al tema dello staff della Clinton, composto da suoi leali collaboratori, da incalliti veterani vicini al presidente uscente Obama, e da strateghi di passate campagne elettorali che concorrono al buon esito di campagne parallele (PAC) di sostegno alla candidatura.
Affidabili e stagionati.
In casa DEM le primarie finora sono state combattute ben oltre le apparenze; lo “stagionato” (seasoned) senatore del Vermont Bernie Sanders ha conteso la nomination della Clinton Stato per Stato, assicurandosi la maggioranza o la totalità dei delegati in diverse occasioni, e resterà teoricamente in corsa fino all’ultimo voto. I sondaggi lo danno addirittura più forte della Clinton nell’eventuale corsa alla Casa Bianca contro Trump (sicuro ormai della vittoria tra i repubblicani) in ben tre degli swing states, gli stati tradizionalmente decisivi nella vittoria finale, come consuetudine del complesso sistema politico statunitense.
Già, i sondaggi.
Quattro mesi di caucus e primarie sono stati analizzati contea per contea , da febbraio a oggi. I margini di vittoria sono stati spesso molto netti, a dimostrazione del fatto che 8 anni di mandato democratico non hanno restituito un Paese rappacificato né omogeneo.
L’Huffington Post aggiorna costantemente una pagina popolata di andamenti sulle primarie statali, e non mancano diversi sondaggi ripetuti nel tempo sulla capacità di ogni candidato di rispondere alle esigenze popolari, al fine di costruire una figura definita di ciascuno. I grafici “a dispersione”, partendo da una nuvola di entries, generano una linea unificata che “inevitabilmente” aggrega le opinioni e le incanala in un disegno collettivo e finalizzato: così la candidatura Clinton cade nel solco della continuità, Sanders il “socialista” si fa forza (relativa) grazie alle trade unions, Trump raccoglie la rabbia dei repubblicani delusi. Gli altri (Rubio, Cruz e Kasich) odoravano già di sconfitta in partenza.
Molto significativa è la lista dei top contributors in particolare in campo democratico: banche d’affari e estabilishment per la Clinton, workers’ associations per Sanders. Gli interessi convergono, i media si adattano. E i sondaggi oscillano, un giorno dando per sconfitto Sanders, il giorno successivo ancora vivo e vegeto.
La genesi dell’errore statistico.
A spiegarci come un lieve scarto percentuale può falsare il pronostico ci pensa Rock’nPoll, un contributo del giornalista belga Maarten Lambrechts.
Qui il focus è sugli exit-polls, cioè le “confessioni” abitualmente raccolte dai sondaggisti che intercettano chi ha appena votato, all’uscita dal seggio. Il concetto però non cambia, perché i media statunitensi interrogano da mesi le fasce (per reddito, razza etc.) di popolazione sulle scelte elettorali finali, presidenza compresa. La simulazione mostra lo scarto – sorprendentemente alto – tra risultato agli exit-poll e verdetto finale, dovuta a confessioni insincere, errori nei conteggi, sottovalutazione e sopravvalutazione delle stime elettorali, e altro.
Il caso britannico.
Un esempio di quanto poco dobbiamo fidarci dei sondaggi viene dalle elezioni politiche del 2015 nel Regno Unito; per mesi i media diedero il Labour Party di Ed Milliband in rimonta sui tories di David Cameron, fino alla previsione di un pareggio che avrebbe di fatto paralizzato il sistema politico del regno.
Come sappiamo i conservatori hanno poi vinto le consultazioni elettorali con ampio margine.
Probabilmente non è stato quel che i giornali si aspettavano, o forse quel che desideravano: La norma statistica cercava di escludere un’opinione scomoda, sulla base della sua mancanza d’attrattiva.
Non è forse lo stesso caso che si presenta oggi in Italia, quando di fronte alla supposta impopolarità di alcuni atteggiamenti dell’elettorato, si sceglie di non farne menzione o di sottovalutarli?
Il rischio è quello di pagare chi dovrebbe scriverne per tacere.