Tutti i grafici del presidente.

Marco Giannini

Cieli blu e deliri rossi.

Hillary Clinton e Donald Trump

Hillary Clinton e Donald Trump

Ancora un po’ e ci siamo. Tra meno di tre mesi (esattamente l’8 novembre) gli Stati Uniti d’America avranno un nuovo presidente, che prenderà il posto occupato per 8 anni da Barack Obama. Alle convention appena tenutesi a Cleveland in Ohio e a Philadelphia in Pennsylvania sono stati infine selezionati due candidati dei due maggiori partiti, il Partito Democratico e il Partito Repubblicano: si tratta della democratica Hillary Clinton, ex-segretario di Stato Usa ed ex-first lady, e del suo avversario, l’imprenditore Donald Trump.

Una democrazia semplice con un motore complesso.

Davvero impressionanti le forze che il mondo dei media stelle e strisce mette in campo per illustrare le posizioni dei suoi leader politici, elencare le lobbies che li sostengono e informare la popolazione; sui maggiori network (Cbs, Abc, Fox) e sulle testate giornalistiche più importanti (New York Times, Washington Post e Wall Street Journal) è una fioritura di ponderose analisi e completissime infografiche, counter di voti e dataset contenenti i profili di milioni di probabili elettori.

I loghi dei due candidati

I loghi dei due candidati

Per contrappasso, il sistema politico della più potente democrazia planetaria è piuttosto complicato, diversificato tra i vari Stati dell’unione e percorso da una storica tensione dialettica che gli conferisce lo status di un vero e proprio show; la corsa alla presidenza degli Stati Uniti dura circa 18 mesi (dall’inizio delle campagne per le primarie fino all’Election Day), e si snoda attraverso le piazze del Nord America seguendo le istanze che l’opinione pubblica, le forze politiche e gli analisti indirizzano quotidianamente verso la Casa Bianca.

E si ripete ogni 4 anni, come le olimpiadi o i mondiali di calcio; chissà se un giorno presenzierà anche uno sponsor? Per ora la cappa di sacralità resta inviolabile.

2 sistema elettorale schema

Il sistema elettorale degli Stati Uniti conferisce alla cittadinanza la possibilità di un voto “differito”, in quanto durante le elezioni primarie essa seleziona un numero di delegati (variabile a seconda dello Stato, normalmente i delegati afferiscono ai due maggiori partiti, andando ad aggiungersi a un numero esiguo di super-delegati sciolti dal vincolo di appartenenza) i quali attribuiscono la propria preferenza al candidato presidente nel corso delle convention estive. I delegati sono solitamente quadri locali dei due partiti, da essi tenuti sotto controllo ma in teoria ancora liberi di votare il candidato presidente che preferiscono.

I regolamenti per il voto alle primarie variano da Stato a Stato, ma ciò che è importante è che i cittadini iscritti per votare in una elezione primaria di un partito non possono poi iscriversi al voto per la primaria di un altro partito. Il loro voto alle primarie è quindi un voto per delega, vincolato alla scelta di un partito, e la loro attiva partecipazione durante questa fase, solitamente piuttosto esigua, è ritenuta molto importante per sostenere le candidature presidenziali.

L’altro punto cardine è dato dal fatto che il presidente viene poi eletto in novembre a maggioranza assoluta dal collegio elettorale, composto da 538 grandi elettori; questi grandi elettori – appartenenti alle alte gerarchie dei partiti, in numero pari ai rappresentanti di ogni singolo Stato e quindi secondo la consistenza della popolazione – vengono eletti dal voto popolare con un sistema maggioritario in ogni Stato della Federazione: ciò significa che il candidato presidente indirettamente vincitore in un singolo Stato si aggiudica tutti i delegati assegnati allo Stato stesso. Quindi i cittadini non scelgono direttamente il loro presidente, ma i membri del Collegio elettorale che a sua volta eleggerà il presidente.

3 Nyt Hunt for the votes

Una partita ancora da giocare.

Da poco ufficializzate le candidature nelle rispettive convention, i contendenti sono impegnati nel rafforzamento della propria immagine e nella raccolta del voto degli elettori  indecisi, qui come altrove molto importanti.

Con un grafico a matrice che gli stessi media americani giudicano straightforward (trasparente, proprio come dovrebbero essere tutte le infografiche), il New York Times ci ricorda che al 1° agosto solo il 14% dei cittadini statunitensi si è schierato con l’uno o l’altro candidato, scegliendolo nelle rispettive elezioni primarie.

Il 14% non corrisponde in effetti a una grande affluenza, considerando che su un totale di 324 milioni di residenti negli Usa, 103 milioni non hanno diritto al voto (minorenni, stranieri o privati del diritto per condanna penale – soltanto le persone in carcere o in libertà vigilata sono quasi 7 milioni) e altri 88 milioni in media non esprimono mai un voto in alcuna tornata elettorale; dei rimanenti 133 milioni, ben 73 non hanno votato durante le primarie, e altri 60 hanno votato per candidature presidenziali differenti da mrs Clinton e mr Trump. La corsa al candidato è stata combattuta in particolare in casa democratica, dove Bernie Sanders, senatore del Vermont, ha conteso a lungo la nomination alla Clinton.

I finanziamenti per le primarie e l’affinamento delle strategie.

Le due anime politiche degli States, quella rossa e quella blu, sono a detta di tutti attualmente preda degli interessi del capitalismo: in una sfrenata corsa al finanziamento privato (regolato da leggi che ne obbligano comunque l’erogazione alla luce del sole), Clinton e Trump hanno condotto le rispettive campagne per presentare alle masse elettorali programmi di governo sorprendentemente non tanto liberisti (un confronto approfondito che sottolinea le differenze si può trovare sul sito di Fortune.

4 contributors

Hillary Clinton, già sconfitta da Obama nelle primarie del 2008 che pure la vedevano all’inizio largamente favorita, è stata (ed è ancora da una parte dell’elettorato americano) attaccata per la sua vicinanza alle alte sfere della finanza e delle grandi multinazionali, nonché per la sua ossessione per il look, che l’ha portata a indossare in occasioni ufficiali abiti costati migliaia di dollari.

Eppure è la prima donna candidata alla guida del Paese più potente del globo (nemmeno 100 anni dopo l’ottenimento del suffragio universale da parte del gentil sesso), dove le donne rappresentano effettivamente più della metà del corpo elettorale. La loro fedeltà è il motivo principale per cui Clinton ha sconfitto Sanders, oltre all’endorsment di Obama che ha convinto l’elettorato nero, soprattutto negli Stati del Sud.

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“L’economia controllata dallo Stato qui non attecchirà mai, il libero mercato è padrone e deve solo farsi piacere”, dicono i radical urbani più scettici, che spesso disertano le cabine elettorali. Ma le condizioni imposte da Sanders per sostenere la Clinton a novembre hanno spinto nelle ultime settimane il partito democratico a qualche marcia indietro rispetto ai piani economici tradizionali che secondo i critici favoriscono le grandi corporation (dell’aumentata attenzione alle istanze di colore social-democratico davano testimonianza già nel 2015 fa gli analisti di Politico.

Nel conto finale, comunque, la gentrificazione dei suburbs che in teoria porta voti ai democratici e gli arrabbiati delle praterie del corn belt che si rifugiano nei deliri xenofobi del Tea party tendono a equivalersi, lasciando ancora incerto l’esito di novembre.

Dell’altro candidato, il miliardario Donald Trump, si elencano da mesi le intemperanze, le incongruenze, le sortite contro le minoranze etniche e gli immigrati (numerosissimi negli Stati del Sud, solidamente repubblicani), e ultimamente persino una non tanto velata accusa ai suoi avversari di abitudine nel truccare i risultati elettorali. Eppure Trump è riuscito a volgere la rabbia dell’elettorato conservatore contro il partito di riferimento, il Gop (Grand Old Party), e a staccare gli altri candidati repubblicani durante le primarie.

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In casa democratica, la candidata Clinton ha raccolto fondi per la campagna elettorale tra le maggiori banche e società finanziarie statunitensi, inimicandosi il popolo che qualche anno fa diede vita a Occupy Wall Street, e che a novembre dovrà pure sostenerla nel rush finale. Come ha certificato la FEC (Federal Election Commission), Hillary è la candidata che ha raccolto di gran lunga più fondi, sfiorando i 275 milioni di dollari (e spendendone 230). Anche nel Paese dell’amministrazione trasparente e del Bigdata praticante gli elenchi dei donatori per le primarie non sono sempre accessibili e facili da consultare, e il nuovo sito di questo ente pubblico finanziato dal Congresso offre un contributo atteso in verità da molto tempo.

La patria del blues, del jazz e degli swing states.

Ora la corsa si sposta verso la conquista del voto popolare negli Stati più indecisi, quelli che recentemente hanno evidenziato un forte slittamento delle preferenze e dell’opinione pubblica, e quelli in cui tradizionalmente l’elettorato è maggiormente diviso tra repubblicani e democratici: i cosiddetti swing States.

Il Wall Street Journal ha prodotto una ricca Field Guide grafica (il riferimento è ai campi di battaglia) che mostra il trend elettorale di ciascuno dei 51 Stati e racconta nel dettaglio da quali di questi è lecito attendersi una conferma dei sondaggi e da quali invece una possibile sorpresa (per es. gli Stati del nord come Minnesota e Wisconsin, colpiti da ripetute crisi economiche e svuotati dal tessuto industriale, più arrabbiati con l’estabilishment).

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La forma che resta nell’occhio è la sagoma degli Stati Uniti, inconfondibile eppure frammentata negli istogrammi. Il singolo dato però è relativo alla media nazionale, e mostra lo scarto verso il rosso o verso il blu di ogni Stato, per ciascuna delle ultime 9 elezioni presidenziali dal 1980 a oggi: ad esempio uno Stato come la Florida – in cui i Democratici hanno vinto sia nel 2008 sia nel 2012 – mostra un lieve red shift perché il margine di vittoria dei Democratici è stato inferiore a quello del voto nazionale.

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Scendendo nel dettaglio, vediamo che esiste una fascia di Stati da sempre incerti: Florida, Ohio, New Hampshire e Iowa: dal 1980 a oggi chi ha vinto le elezioni finali si è assicurato almeno tre di questi quattro stati, e tutti e quattro sono rimasti entro uno scarto inferiore di due punti percentuali rispetto alla media nazionale.

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A questi si aggiungono quattro nuovi fronti: Colorado, Nevada, North Carolina e Virginia. Tradizionalmente appannaggio dei Repubblicani, Obama vi ha trionfato nel 2008 e nel 2012, siapur con un margine inferiore. Le minoranze ispaniche in Colorado e Nevada, in grande crescita numerica, sembrano comunque orientate a votare per la Clinton a novembre.

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The Upshot, il sito di analisi e data visualization del New York Times, nel presentare una grande mole di dati sceglie un approccio più pragmatico: basandosi su vari sondaggi nazionali debutta con le attuali chance di vittoria per Clinton e Trump (molto sbilanciate) e con la serie storica degli ultimi mesi.

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Ma l’infografica più originale (in verità già utilizzata 4 anni fa) si incontra a fondo pagina:

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In questo interattivo l’utente ha la possibilità di esplorare Stato per Stato le possibilità di vittoria per il DP o il GOP, seguendo al rollover del mouse le conseguenze di una lotta che potrebbe risolversi – come quella tra Al Gore e George W. Bush nel 2000 – addirittura all’ultima contea. Gli swing States sono elencati secondo il loro peso elettorale lungo una sorta di albero di Porfirio, giù giù fino al piccolo New Hampshire, e le probabilità distribuite man mano che si aggiorna la cascata dei risultati. E’ anche possibile attribuire in partenza alcuni degli Stati indecisi a Clinton o Trump e sottrarli alla contesa, osservando come i rimanenti siano più o meno decisivi.

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La vittoria della Clinton rimane assai probabile, le basterebbe aggiudicarsi

uno Stato tra Florida, Ohio o Pennsylvania per diventare presidente, a condizione che i non-swing States (cioè tutti gli altri non citati) siano attribuiti ai probabili vincitori.

In ogni caso, un vero capolavoro di logica e grafica.

Interessanti anche le tabelle e i grafici soprastanti, su tutti la curva di distribuzione dei risultati più probabili, anch’essa largamente favorevole alla Clinton.

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In un’altra pagina densa di grafici, Amanda Cox e Nate Cohn per The Upshot ci presentano un’analisi del voto del 2012 basata su bubble charts  (grafici a bolla) che distribuiscono il voto per etnia, grado d’istruzione, sesso ed età. Questi parametri si sono ulteriormente evoluti negli ultimi 4 anni, e il NYT è pronto a scommettere che avranno un loro peso anche nelle presidenziali di novembre.

Le mappe mentono sempre, basta saper scegliere.

Lo sforzo di astrazione richiesto ai propri lettori da Nyt e Wsj è già molto al di sopra dei nostri standard, e dovrebbe farci riflettere da un lato sulla quantità di dati che, per mezzo dell’infografica e del data visualization, è possibile ordinare attorno a un tema giornalistico a sperimentazione sta prendendo piede in altri; dall’altro, sul fatto che a lettore evoluto corrisponde giornale evoluto, e viceversa. Nell’american english esiste addirittura una parola per noi intraducibile, graphicy, che indica un oggetto di design, ma anche la capacità di un lettore di saper leggere un grafico. Esistono perfino corsi universitari e test scolastici di valutazione.

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Una sperimentazione ancora più ardita prende piede in redazioni meno tradizionali: quest’anno la piattaforma di sondaggi e ricerche FiveThirtyEight (il nome ricorda proprio i 538 grandi elettori che saranno eletti a novembre), fondata nel 2008 da Nate Silver e ora di proprietà di Espn, ha messo in campo il suo Election Forecast, ed è una vera bellezza! Si parte con una classica mappa degli States e un tracker (anche qui Clinton è in netto vantaggio), per poi trovare più raffinate visualizzazioni degli swing States e una interessante Road to victory che disegna Stato dopo Stato la marcia dei candidati verso i 270 voti necessari per approdare alla Casa Bianca.

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Notevole anche la Choropleth map esagonale che riproduce proporzionalmente il peso elettorale di ciascuno Stato, naturalmente collegata a un forecast locale.

Per i patiti di infografica, si segnala qui il dibattito che nei siti specializzati ha preso il via riguardo al tipo di mappa da usare in occasioni così importanti: tutti sanno che le più vecchie proiezioni geografiche, come quella di Mercatore, distorcono le proporzioni e le distanze, e che col tempo sono state proposte soluzioni tecniche più adeguate; ma qui siamo su un altro livello, e se comprendiamo le ragioni del grid map debate, possiamo imparare a leggere i dati con maggior profondità, e pretendere dai nostri giornali una maggior aderenza alla realtà, e dalla nostra proterva classe politica un’apertura verso gli open data di cui ancora non v’è traccia.

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Per chiudere trionfalmente sugli Swing States e la deriva repubblicana degli Usa durante due presidenze democratiche, va ricordata la geniale wind map di tutte le contee che il Nyt propose nel 2012 (per mano di Mike Bostok e Shane Carter); l’ampiezza e la velocità delle “nuvolette” rosse e blu che si alzavano dalle polverose campagne del Mid West sono propozionali allo spostamento dell’elettorato di allora verso posizioni più conservative. Alla fine prevalsa la sicurezza di un secondo mandato a Obama, ma il margine di vittoria fu assai ridotto rispetto a quattro anni prima.

cartina finale

Per ora i sondaggi lasciano tranquilla Hillary, ma se la “tempesta” del 2012 dovesse ripetersi, Trump (per ora accreditato di una forbice di probabilità tra il 10% e il 13% ma assai più minaccioso del suo predecessore Mitt Romney) potrebbe ottenere uno dei risultati più inattesi della storia politica americana. D’altronde è lo stesso FiveThirtyEight, attivo anche nel campo delle statistiche sportive, a ricordarci che all’inizio dell’anno i Cleveland Cavaliers avevano solo l’11,1% di probabilità di vincere l’anello Nba.

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