Marco Giannini
Visualizzare il tempo
Se le cose succedessero tutte insieme, sarebbe complicato affrontarle. Per fortuna esiste il tempo, che le tiene separate.
Ma il tempo esiste davvero o l’abbiamo inventato noi perché ci fa comodo?
Osservando l’avvicendarsi dei giorni e delle stagioni, viene naturale pensare che il tempo passi, che per passare debba in qualche modo arrivare (ma da dove?), e che insomma faccia parte dell’ordine naturale del mondo, una parte importante per giunta. Che il suo scorrere non sia solo una metafora ma segua una direzione universale.
Sempre in base allo scorrere dei giorni e delle stagioni, pare di capire che la misurazione del tempo ci è data, e che quel grandioso (e imperfetto) espediente che chiamiamo calendario sia in realtà un’invenzione (nel significato etimologico del latino invenio: “scopro, trovo”), una trasposizione di qualcosa di pre-esistente. Per non parlare delle ore, dei minuti e dei secondi, che misuriamo grazie a complicati marchingegni chiamati orologi, così complicati che in pochi sanno come funzionano davvero.
Eppure la misurazione di una grandezza risulta un’attività specificamente umana. Misurare significa rappresentare (alla mente e agli altri per tramite del linguaggio) grazie a un numero. Nel caso del tempo, misurare implica necessariamente comparare il tempo stesso a quel che accade, farne una componente del reale, strapparlo al regno delle astrazioni e dei sogni. In poche parole, farne uso, altrimenti il tempo ci sfuggirà.
Prima partizione della realtà: la distanza
Poiché in questa rubrica ci si occupa di infografica giornalistica e più generalmente di visualizzazione di grandezze e delle loro relazioni, è amaro iniziare la disamina ammettendo che, avendo a che fare col tempo, l’infografica perde un colpo.
Eh sì, proprio così: vedremo come i più vari information design abbiano esplorato parecchie possibilità di visualizzazione riuscendo però a centrare il bersaglio solo parzialmente. E come forse, in qualche modo, sia stato un filosofo a rendere la migliore visualizzazione del tempo con un disegno, proprio un po’ di tempo fa.
Il fatto è che il limite è innanzitutto nella scienza: così come esistono due modi per misurarlo, esistono principalmente due tipi di rappresentazione del tempo, entrambi indiretti. Il primo rappresenta – e misura – la distanza lungo la quale un certo fenomeno si realizza; di solito è visualizzato con un “vettore” (un istogramma, una freccia o qualcosa di simile) in base a una scala di valori (per esempio metri). Un esempio attuale viene dal Guardian e riguarda la finale della gara dei 200 metri stile libero nella recente olimpiade di Rio 2016.
L’impresa di Sun Yang è raccontata da un grafico interattivo che mostra come il vantaggio decisivo sia maturato soltanto negli ultimi 25 metri di gara. Il margine di vittoria corrisponde allo scarto tra l’istrogramma del percorso di Sun Yang (in giallo) e quelli dei suoi avversari, in blu e appena un po’ più corti: la parte mancante in ciascuno degli altri istogrammi corrisponde al tempo che è stato loro necessario per completare la vasca, dietro al cinese. Con una parola italiana chiamiamo distacco questa misura, ma si tratta di un concetto tutt’altro che semplice da spiegare. In ogni caso la visualizzazione proposta dalla testata inglese – comunque intuitiva – rappresenta il cambiamento occorso tra due stati temporali, quindi non il tempo stesso ma una sua applicazione sensibile.
In altri casi e con differenti finalità, sempre sostenendoci sulla scansione temporale, possiamo visualizzare il cambiamento di un valore senza considerare direttamente la distanza; se analizziamo per esempio un grafico del volo German Wings del 24 marzo 2015 diretto da Barcellona a Düsseldorf e schiantatosi sulle Alpi francesi meridionali, notiamo che i riferimenti temporali riportati in basso – sull’asse orizzontale – informano le curve dell’altitudine (in blu) e della velocità (in rosso) dalla partenza fino al tragico epilogo in Provenza.
Qui i vettori sono due e aiutano a comprendere la dinamica dell’incidente e la volontà suicida del pilota (l’aereo scese precipitosamente di altitudine mantenendo all’incirca la stessa velocità). Ma il discorso non cambia: le linee mostrano un cambiamento in base a una scala di valori (anzi due scale differenti), il tempo non è direttamente misurato ma serve come sistema di riferimento unitario.
Un passo appena più coraggioso si trova nei grafici a dispersione, come quello ripreso da Graphic methods for presenting facts (di Willard C. Brinton, Engineering Magazine Company, NY 1914) che mostra l’evoluzione dei salari medi negli Stati Uniti a 5, 10, 15…. anni dopo la laurea. Realizzato ben 102 anni or sono, tanto per mostrare come gli strumenti concettuali di visualizzazione non siano stati inventati tutti negli ultimi anni…
In questo caso ogni pallino sullo scatterplot corrisponde a un salario di un intervistato, un certo numero di anni dopo aver ottenuto la laurea; la media delle posizioni dei pallini sulle due scale di valori (tempo in basso in orizzontale, dollari al mese a sinistra in verticale) è riassunta dalle curve: media, mediana, decimi e venticinquesimi percentili superiori e inferiori. Quel che rende interessante questo grafico è l’organizzazione delle occorrenze in gruppi (un concetto reso in statistica dalla concentrazione), e il loro variare nel tempo che stabilisce delle correlazioni: qui la correlazione è positiva (i valori crescono insieme) e le linee curve sono aggiunte per facilitarne la lettura.
Ma non è sempre così semplice. A proposito di crescita delle variabili su un piano cartesiano, proviamo a fare un’ulteriore passo in avanti, appoggiandoci a un “manuale” di lettura dei grafici a dispersione proposto da Eagereyes, il blog del professor Robert Kosara, senior research scientist presso Tableau ed ex-professore di Computer Science, tra i più attivi ricercatori di data visualization al mondo.
Questo “specchietto” che illustra le possibili correlazioni tra dati ci serve per interpretare il successivo esempio, ripreso da un numero del New York Times del 2008 (poi aggiornato), in cui Amanda Cox descrive le oscillazioni del prezzo del carburante negli States fin dai primi anni ’50, collegando i picchi alti e bassi ad alcuni passaggi storici.
La scansione temporale (un’occorrenza = un pallino = un anno) è riportata sulla linea curva, e segue sull’asse delle ordinate (in verticale) il prezzo in dollari per gallone, e sull’asse delle ascisse (in orizzontale) le miglia percorse in media ogni anno da un automobilista. Il fattore tempo sostiene la visualizzazione senza “ritmarla”, le sincopi che a intervalli regolari strutturano un grafico ad andamento qui non ci sono, e addirittura la linea curva “torna indietro” negli anni ’78-’79, negli anni ’90 e ancora intorno al 2010.
Senz’altro un esempio controintuitivo, ma analitico e – questo sì – innovativo.
Spezzare il movimento per catturarlo.
Dunque sembrerebbe che la visualizzazione – sia pure parziale e indiretta – degli effetti del tempo sulla realtà getti una luce sulla sua oscura essenza. Questo non tanto perché il tempo sia indipendente dalla nostra percezione, quanto perché riusciamo a decifrarlo solo attraverso il cambiamento, e a misurare il cambiamento mediante i numeri. “Il tempo è il numero del movimento secondo il prima e il poi” diceva Aristotele lo Stagirita, nel senso che il tempo non è percepibile senza il divenire. “L’esistenza del tempo […] non è possibile senza quella del cambiamento; quando, infatti, noi non mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutare nulla, ci pare che il tempo non sia trascorso affatto.” (Fisica).
Che questo sia d’ausilio anche nella rappresentazione visuale ce lo dimostrano tutti gli esperimenti di fotografia e animazione che dal lavoro di Edward Muybridge conducono fino all’odierna motion graphics (ci torneremo più avanti) e all’uso dei fotogrammi per scomporre il movimento.
In quest’ottica, validi esempi vengono ancora una volta dal New York Times, sempre in campo sportivo: alle Olimpiadi di Rio il nome di Husain Bolt è stato omaggiato da una efficace copertura mediatica, e la testata nuiorchese gli ha dedicato una mirabile composizione fotografica con scansioni ripetute alla distanza di circa 10 metri una dall’altra.
Il fatto che l’atleta giamaicano abbia recuperato uno svantaggio iniziale (è uscito in ritardo dai blocchi rispetto al suo competitor più accreditato, Justin Gatlin, poi medaglia d’argento) ha colpito talmente l’immaginario e la stampa che il Nyt gli ha persino dedicato un gioco, non visuale ma sonoro, per confrontare il suo stucchevole tempo di reazione a quello di un qualunque lettore. Provare per credere.
Descrivendo visivamente le gare olimpiche, altre testate hanno usato comparazioni grafiche e fotografiche accurate per mostrare il distacco tra atleti (come il Guardian in questo interattivo sulla gara di ciclismo).
Chi ha seguito il discorso fin qui e ricorda un po’ di filosofia dai tempi del liceo dovrebbe aver già richiamato alla memoria il nome di Zenone di Elea. Il suo semplice ragionamento si basa sull’assunto che, supponendo che lo spazio e il tempo siano divisibili all’infinito, il movimento non può esistere; pertanto, non esistendo il movimento, non esistono né il cambiamento né il tempo, perché non lo si può percepire.
Per raggiungere il termine bisogna, infatti, che l’oggetto mobile arrivi a metà della corsa; ma vi sarà sempre, in uno spazio pensato come divisibile all’infinito, una metà della metà, e poi ancora una metà della metà, e così via. È il cosiddetto argomento della dicotomia, il famoso esempio di Achille che raggiunge d’un balzo il punto in cui era la tartaruga, ma gli occorre fare ancora un passo per raggiungere il punto in cui essa si è portata mentre egli faceva il primo, e così di seguito, all’infinito. Ne consegue che “il piè veloce” per antonomasia non raggiungerà mai la lentissima tartaruga.
Tralasciando per un momento le confutazioni dei paradossi di Zenone, suddivere il tempo in scansioni discrete forse non ci aiuta ad allinearlo alla nostra coscienza, dove il movimento si fonde in un atto sintetico, quanto ad altre rappresentazioni di altri movimenti simili, cui evidentemente siamo abituati. Motion designer, fumettisti, fotografi scientifici seguono questo antico adagio senza perdere di vista il fatto che l’unità di percezione non è – e non può essere – assoluta, valida per tutti allo stesso modo.
Seconda partizione della realtà: la durata.
Spezzare il movimento in fotogrammi vuol già dire cambiare tipo di misurazione: la durata è il tempo trascorso tra l’inizio di un fenomeno e la sua conclusione. Anch’essa di solito è visualizzata su una scala discreta, come per esempio in una comune timeline.
La storia dei Pink Floyd dal 1960 al 2000 in una timeline realizzata da un utente Flickr
La durata può essere incrociata con altri dati per sostenere un’evidenza, per esempio con la frequenza di un evento; in questa infografica di Samuel Granados pubblicata su La Lettura, inserto settimanale del Corriere della Sera, la fine “precoce” di un matrimonio si concreta oggi dopo un minor numero di anni, in media, rispetto a 40 anni fa. O meglio, seguendo gli assi del grafico, a parità di durata la frequenza della fine di un matrimonio è più alta.
Un altro esempio di applicazione visuale della misurazione della durata è nelle cosiddette timetable, cioè quelle mappe geografiche che sostituiscono le distanze in metri con le distanze in minuti: come in questa mappa della “T” di Boston, il servizio metropolitano di trasporti sotterranei attivo nella capitale del Massachussetts.
Nella mappa di destra i cerchi concentrici che irradiano il territorio segnalano la distanza dal capolinea (un quadrilatero di fermate intorno a Downtown Crossing) in minuti di percorrenza. Esistono grafici di grande complessità che combinano durata e frequenza, ore e giorni. Questo ingegnoso esempio è tratto dal resoconto mensile del traffico delle chiatte in uno scalo portuale statunitense, e risale a oltre un secolo fa: sull’asse orizzontale ci sono i giorni, su quello verticale le ore del giorno; lo scopo del grafico è registrare se le chiatte galleggianti ricevono il loro carico alla stessa ora ogni giorno.
Le linee tratteggiate segnalano l’ora in cui, in ogni giorno della settimana, le chiatte sono riempite di container scaricati dai treni merci, mentre le linee continue segnalano l’ora in cui le chiatte vengono trainate fuori dallo scalo dai rimorchiatori. Le lettere maiuscole indicano le destinazioni (ricorrenti).
Se la tabella delle partenze fosse regolare, le linee continue risulterebbero perfettamente orizzontali, e lo scarto con le linee tratteggiate rimarrebbe costante. Da notare come la tempesta (blizzard) nel giorno 7 ha inficiato lo svolgimento normale delle operazioni.
Le posate per il nostro pasto.
Distanza e durata, dunque, sono il coltello e la forchetta con cui assaggiamo la dimensione-tempo: quando teniamo fermo uno dei due strumenti, muoviamo l’altro e qualcosa accade nella nostra concettualizzazione.
Come la distanza, poi, anche la durata è misurata in frazioni numeriche. Anche per quanto riguarda le visualizzazioni, la sfida dovrebbe essere dunque congiungere queste due grandezze in una sola: per esempio la velocità.
In fisica la velocità è una grandezza che misura il cambiamento della posizione di un corpo in funzione del tempo: sappiamo intuitivamente che possiamo graficizzarla con una delle precedenti tipologie di visualizzazione, anche se di solito ci accontentiamo di numeri, come quando osserviamo un tachimetro.
Se però nella coppia distanza/durata sostituiamo il primo termine con un’oscillazione, cioè con un elemento ricorrente con lo stesso intervallo, scopriamo che esiste un’altra applicazione della misura del tempo, il ritmo: quella componente che nella musica precisa e tiene costante il tempo di esecuzione, accompagnandoci da una battuta alla successiva. Anch’esso si divide in rapporti semplici; persino nei ritmi musicali complessi è sempre possibile rintracciare una struttura sottostante organizzata in suddivisioni della battuta per 2 e per 3. Marce, valzer, mazurche e via via proseguendo con scansioni più “difficili”, tutte sono basate sui nodi della suddivisione del ritmo; in corrispondenza di questi nodi si concentrano i suoni, secondo un andamento sincopato o poliritmico, con piccole ma significative variazioni. E tutto ciò accade nell’arco di un certo tempo, durante il quale si crea un percorso musicale.
Uno spartito musicale per batteria è la visualizzazione più chiara del concetto di ritmo, perché dopotutto anche un pentagramma è un piano cartesiano.
Una partitura per batteria di un esercizio in half time.
Il concetto più sfuggente di grafico di durata è forse quello legato alle distanze siderali: dato il limite della velocità della luce , sappiamo che quando osserviamo nel cielo oggetti enormemente lontani stiamo ripercorrendo all’indietro anche la scala temporale, questo perché la luce da essi proveniente impiega migliaia, milioni e persino miliardi di anni per giungere fino a noi.
In questo collage Nasa-Esa di fotografie scattate dal telescopio Hubble a diverse galassie, possiamo osservare che man mano che ci si allontana nel tempo e nello spazio (graduato sulla scala orizzontale) le galassie osservabili si riducono ad ammassi informi di materia, ciòè a quel che doveva essere il loro stato primordiale.
Tempo e coscienza.
Se i concetti implicati sono chiari, la loro visualizzazione risulta possibile solo perché essa viene rappresentata per gradi, cioè suddivisa in un numero finito di passaggi (metri in termini di distanza, secondi in termini di tempo, scansioni astratte per il ritmo, ecc.).
La misurazione rende possibile il confronto dello stato attuale con uno stato che viene “fotografato” in precedenza, cioè con qualcosa che non esiste più in quella forma.
Il tempo che conosciamo è il tempo a cui possiamo pensare (passato, presente e futuro), ma il tempo presente è solo la relazione tra ciò che non è più e ciò che non è ancora, in poche parole l’intersezione tra due stati “inessenti”.
Ma allora in che modo può essere qualcosa che non è? Come ci avverte Sant’Agostino, solo la mente ci permette di evitare la contraddittorietà della caratterizzazione dell’istante attuale e degli altri istanti, perché il prima e il dopo sono in realtà luoghi della coscienza.
La scienza concepisce il tempo come una serie di istanti che si susseguono, ne ha una visione “spazializzata” che pretende di cogliere il cambiamento da una serie di misurazioni (o fotogrammi, come abbiamo visto). Il filosofo francese Henry Bergson, professore nei licei di Angers e di Clermont-Ferrand sul finire del XIX secolo, conduce una critica radicale a questa concezione, sostenendo invece che il movimento del (e nel) tempo è fluido, non percepito nella sua interezza finché non è concluso, e che la nostra esperienza lo vive come uno scorrere continuo in cui gli stati psichici non si succedono ma convivono.
L’esempio più noto è quello della zolletta di zucchero sciolta in acqua: è solo quando l’acqua diviene dolce che noi cogliamo “internamente” la differenza col prima, l’eventuale misurazione chimica dei diversi stati intermedi non essendo cogente.
Se pure ne ammettessimo l’oggettività, il tempo “esterno” non coinciderebbe con quello interno, che non è misurato col numero. Il numero è un predicato di una sostanza, cioè semplificando una qualifica che di quella sostanza si enuncia (o si nega), ma non è la sostanza stessa, e non ne fa parte (almeno questo è quanto asserisce la logica matematica https://it.wikipedia.org/wiki/Logica_matematica). Persino in analisi grammaticale (un’applicazione della logica) il numero è un attributo del soggetto o dell’oggetto, cioè un aggettivo, ma non è l’oggetto stesso.
Bergson illustra questo concetto dipanando due gomitoli di lana di colori diversi: il loro percorso non coincide perfettamente, nodi avvolgimenti e convulsioni divergono e gli intrecci sono casuali.
La disomogeneità della memoria.
Per Bergson la durata coincide con la coscienza, un’equazione già presente nel nostro senso comune. Prendiamo il caso di due persone, un bambino di tre anni e suo padre quarantreenne: un anno vissuto per il bambino equivale a un quarto della sua intera vita e avrà durata e importanza ben diverse da quello vissuto dal papà, appena un quarantaquattresimo della sua esistenza, come illustrato dal grafico qui sotto.
E i piani di coscienza? Anch’essi sono un prodotto della nostra mente, ma per quel che conta, la sola percezione del tempo a noi prossima.
Qui l’arte infografica può rientrare in gioco. Nel film Inception di Christopher Nolan (2011), un falsario si insinua nei sogni di un dirigente d’azienda per influenzarne le decisioni; agendo sulla percezione del tempo, il protagonista si addormenta nel sogno della sua vittima sognando di sognare, in un complesso schema di piani paralleli. Per chi ricorda la trama, l’infografica qui a fianco risulta di qualche aiuto.
L’occhio può essere ingannato facilmente, come ci dimostrano per esempio gli esperimenti delle “torte rotanti” di Alexandre Dubosc, ma la mente ci avverte quando cadiamo in fallo e crediamo ai numeri.
O almeno dovrebbe farlo la memoria. Bergson ritiene che la memoria sia l’accumularsi e stratificarsi del vissuto in un tutto. La sua dimensione temporale non è l’istante (come nel caso della percezione sensoriale) ma la durata.
La memoria è rappresentabile come un cono rovesciato, che incide un piano bidimensionale: la punta del cono è la nostra attività istantanea di percezione; la percezione ha luogo nel presente (ovvero alla sua intersezione con la realtà); la base del cono, invece, è il passato dove risiede la memoria.
Come base e punta del cono sono un intero, così percezione e memoria, cioè materia e “spirito”, formano un insieme le cui parti sono indistinguibili. Di conseguenza il tempo che intercorre tra percezione e memoria – appunto la durata – non è omogeneo, proprio come un cono, il cui diametro cambia in ogni differente sezione.
Benché rivolta contro il modello scientifico, è curioso che questa mirabile metafora visuale sia la base geometrica che informa la rappresentazione diffusa oltre cent’anni più tardi dalla comunità scientifica per spiegare le origini del cosmo: la grande esplosione del Big Bang, disegnata in una infografica, con il tempo spalmato sulle ascisse e la punta del cono posta proprio là dove avvenne il primo fatto sensibile della storia. Come se ci fosse stato qualcuno lì a percepirlo. Ma è noto, la scienza procede per astrazioni.