La nebbia agli irti colli.

Anna Veneruso

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“C’è qualcosa di affascinante, di profondamente rustico e montano, nel vino cotto (Mario Soldati)”

La festa e l’estate di San Martino.

Novembre, con i suoi riti di passaggio, è il più simbolico dei mesi. Dalla vita alla morte, dalla bella stagione all’inverno, dalla luce al buio: è un richiamo continuo al ciclo della vita che in questi giorni si raccoglie in silenzio e attende la rinascita. E dove, se non in cucina, questa sensazione è più visibile e radicata? Tutto passa per la tavola: vengono in mente le numerose tradizioni legate ai giorni dei morti in cui la memoria e il rispetto prendono forma di pani, zuppe e biscotti. Cibo come conforto nel lutto e nel dolore, ma anche cibo di buon auspicio come quello che si prepara l’11 novembre per la festa di San Martino. Ricordate la poesia di Giosuè Carducci?

Non tutto il mosto diventa vino.

Questa data coincideva con la fine dei contratti agricoli in campagna: i raccolti erano conclusi e l’inverno era alle porte. Nelle case dei ricchi non mancavano i banchetti con carni e vino nuovo, le provviste per la stagione fredda ormai al sicuro. Ma non tutto il mosto diventava vino. In alcune zone dell’Italia centrale prive di vitigni pregiati, soprattutto nelle Marche e in Abruzzo, una parte del mosto veniva bollito a lungo per ottenere un liquido dolce e denso usato come un toccasana: è il vino cotto. Secondo molte fonti storiche la bollitura garantiva una migliore conservazione e impediva che il vino si trasformasse rapidamente in aceto. Nell’immaginario popolare, invece, questo nettare diventa un compagno inseparabile in tutte le fasi della vita.

La cucina della Maiella. Il libro.

È un liquido potente con cui si frizionano le gambe dei neonati per renderle più forti, è un vino liquoroso che aiuta a superare i malanni, è infine un unguento profumato con cui si massaggia il corpo dei defunti prima della sepoltura. Insomma il vino cotto è un fatto privato, familiare, non si compra, è difficile trovarlo in commercio, per averne una bottiglia in regalo – presa dallo scaffale più nascosto della credenza – ho dovuto elemosinare tra amici e conoscenti in Abruzzo. E infine l’ho conquistato, dolce e profumato, con la sensazione di aver messo le mani su un cibo proibito, e l’ho usato per preparare la torta di San Martino, ovvero della buona sorte (che si nasconderà in una delle porzioni del dolce).

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La ricetta proviene da un libro sulla cucina abruzzese di recente pubblicazione, (“La cucina della Maiella” di Lucio Biancatelli e Gino Primavera, Orme Tarka Edizioni) il cui valore è nel sottotitolo “Storia e Ricette”. Non un ricettario, quindi, ma una vera e propria storia delle tradizioni gastronomiche dei paesi che circondano il massiccio della Maiella (anche Majella) ciascuno con i propri riti, le credenze, le influenze storiche e religiose. Un territorio ricco e affascinante con un patrimonio culinario tutto da scoprire.

 

La moneta portafortuna.

Nella torta di San Martino ci sono due ingredienti preziosi: una moneta che porta fortuna a chi la trova nella propria fetta e il vino cotto abruzzese. Si battono tre uova con 180 grammi di zucchero. Si aggiungono a filo mezzo bicchiere di olio evo e due bicchieri di vino cotto. Poi farina setacciata con una bustina di lievito quanto basta per ottenere un impasto non troppo duro. Prima di infornare a 170 per mezz’ora si uniscono delle noci tritate grossolanamente e la moneta portafortuna.

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Previsioni del tempo per L’Estate di San Martino.

 

 

 

 

 

 

 

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