Sentiero Digitale
Freddo, molto freddo. Sole accecante da mettere le mani a visiera anche con gli occhiali da sole. Graduati per miopia. Mentre fluttuavo sopra la Galleria Nazionale d’Arte Moderna (Gnam) potevo vedere come una mappa le 4 sezioni architettoniche di Villa Giulia e immaginare i suoi etruschi che tranquilli ci guardavano da secoli con occhi intelligenti e di pietra. In basso la professoressa di latino alzava la voce, ammesso che fosse possibile, in genere sussurrava, e col suo indubitabile carisma declinava: “Refero-Refers-Retuli-Relatum-Referre”. Un gruppo di turisti asiatici sulla porta della villa si chiedeva come avrebbero votato gli italiani al Referendum proposto da Renzi : forse sì, forse no, forse boh.
La partita.
Sul campo sportivo, incastonato tra Villa Giulia e la chiesa frequentata dalla buona borghesia dei Parioli, si giocava una partita. Mi ritrovai in campo con degli sconosciuti. Qualcuno mi disse di schierarmi come “falso nueve”. Così venivo incontro alle azioni che si susseguivano e cercavo di distribuire con tocchi di prima intenzione le azioni per i compagni che avanzavano.
Troppo giovani per me. Impensabile uno scarto, un dribbling, mi avrebbero travolto, “mangiato” come si dice in campo. Contavo i passaggi: questo buono, l’altro male. Si alternavano i sì e i no. Grande confusione tattica. Passavo ma il passaggio non mi ritornava mai tra i piedi. Poi le squadre cominciarono a chiamare in coro il passaggio riuscito e quello sbagliato.
Mentana, Enrico Mentana.
Un sì corale o un no corale. Lo schiamazzo era insopportabile e decisi che era meglio chiedere all’arbitro di farli stare zitti. L’arbitro non aveva mai fischiato da quando ero in campo. Guardai bene e non c’era proprio. L’unico possibile referente era seduto in panchina con un tablet, era quello che poteva sembrare un allenatore ma non si capiva di chi. Mi avvicinai e riconobbi subito Enrico Mentana. Quello con una mano alzata mi fece segno di aspettare. Gli occhi sul tablet fissava una clip filmato dove lui stesso era protagonista, seduto tra due individui. La situazione mi sembrò riconducibile a quello che succedeva sul campo, anzi accadeva così forse proprio per quello. Mi sedetti accanto a Mentana sulla panchina e il mio turno, sapevo, non sarebbe mai arrivato. La partita non finiva eppure erano ore che si giocava e il pareggio persisteva. Qualcuno aveva preso il mio posto nel frattempo e i cori di sì e di no avevano ripreso a riempire l’aria. Era ormai buio e le foglie sul vialone erano ferme nonostante il vento, zuppe di umidità. Il Tevere del resto era a circa duecento metri. Si scivolava e senza volerlo ricominciai a fluttuare nell’aria.
Sulla Flaminia urbana che porta a Piazza del Popolo ogni tanto guardavo nelle case. Odore di cibo e televisori accesi e sugli schermi intuivo dibattiti sull’unica cosa possibile da dibattere: il Referendum costituzionale.
Confronti che da mesi avevo deciso di non seguire più. Assieme al libro di genetica che trascinavo da tempo in una faticosa lettura sopportavo le voci in tv dei sostenitori delle due ipotesi.
Ogni tanto qualche frase interessante mi distraeva. Poi tornavo a leggere e mi sembrava che in fondo avessero tutti ragione. C’è da dire che sì e no su un quesito di 5 domande o forse solo 4 mi era sempre sembrata una scelta che non prevedeva sfumature quando invece avevo l’impressione che ci fossero. Nelle case, nelle teste un’overdose d’informazioni e promesse o minacce se avesse vinto l’uno o l’altro degli schieramenti.
“Do you know yes or not?”.
Mi ritrovo ora in un locale della Londra dei primi anni ’70 del secolo scorso. Una ragazza chiedeva insistentemente se volevo scambiare le mie polacchine con fibbia con i suoi (grezzi) stivaletti. Ero imbarazzato e quella incalzava dicendomi “Do you know yes or not ?” . Mi chiedevo se mi piacevano di più i Beatles o i Rolling Stones e anche lì era una risposta difficile. Quella voleva le polacchine italiane che rispetto ai suoi stivaletti erano un’opera rinascimentale. Magari prometteva qualcos’altro e non me ne accorgevo, eppure ero tentato dalla possibilità. Brexit anni ’70: mi tenni le polacchine supponendo che l’interesse fosse alle scarpe e non per me che le indossavo. Rimarrò sempre col dubbio. All’improvviso mi trovai a Piazza del Popolo. I leoni della fontana vomitavano acqua a cascata nelle quattro direzioni attorno all’obelisco. Le due chiese gemelle riassumevano il quesito referendario. Gemelle e contrarie. Una a destra l’altra a sinistra, dipendeva dai punti di vista. All’edicola acquistai il giornale con la Guida al Referendum. Avevo già consultato su internet i documenti del Servizio Studi della Camera dei deputati col raffronto tra testo della Costituzione vigente e a fianco il testo con le modifiche. Ma quelle parole scritte subivano il rumore di fondo dei postulati e degli assiomi ascoltati da mesi. Come un acufene disturba la comprensione di un discorso. E questo non era per di più scritto in maniera semplice. Lasciava adito a interpretazioni e dubbi.
Derby sempre Derby.
Intanto l’unica cosa della quale ero davvero consapevole era la mia necessità di integrare i guadagni. Mi chiedevo se era, per me e tutti gli altri, una priorità importante il referendum che nonostante tutto mi sembrava decisivo quanto il Derby Lazio-Roma che si sarebbe giocato (con possibilità di pareggio però) nella stessa data della consultazione referendaria (domenica 4 dicembre). Cercavo di comprendere il vero significato degli “endorsement” (tanto per abbellire con l’inglese i significati) degli appoggi, sostegni, al sì o al no. Una roba da “poteri forti” che poi forse sono i detentori di denaro, di liquidità ma con la giustificazione della globalizzazione. Banche, Borse mondiali, broker, aziende che diventano politica disegnando scenari possibili o improbabili ma sempre per loro convenienti (almeno sperano). Per la gente comune forse meno. La professoressa mi raggiunse al bar chiedendomi di declinare a mia volta il verbo latino “referre” proprio mentre riflettevo sulla fine e l’inizio delle cose; se a una vecchia storia ne segue sempre una nuova.
La scena sfumava in una vecchia cabina elettorale di una vecchia scuola che mi aveva visto (e di cui forse ero ancora) studente. Durante le roventi assemblee studentesche avevo sempre la sensazione che tutti avessero ragione ma che ognuno in particolare portasse acqua al suo mulino e che a conti fatti tanto valeva proseguire col meno peggio. Le luci psichedeliche del locale londinese cominciarono a roteare nel bar di lusso di Piazza del Popolo. La professoressa era sconcertata e la ragazza inglese continuava a ripetere “Do you know yes or not”? . La declinazione di “referre” non mi veniva fuori anche se la conoscevo perfettamente.
Chinaglia litiga con Dzeko. Prodi sembra Totti.
Nell’avvicendarsi delle situazioni precipitai ancora sul campo tra Villa Giulia e il suo museo etrusco e la chiesa del Generone romano. Era notte fonda e non riuscivo più a levitare, a sollevarmi. Sempre così: se lo volevo non riuscivo, se non ci pensavo accadeva. Le squadre erano ancora lì e mi accorsi che erano un melting pot. Giovani e anche vecchi stavolta. Chinaglia faceva il vero “nueve” e litigava di brutto con Dzeko.
Non c’erano maglie di appartenenza ma ognuno vestiva a modo suo. Canottiere, calzoncini, abiti scuri, in cravatta. Impossibile distinguere compagni da avversari. Fascisti e vecchi comunisti, apocalittici e integrati, banchieri e operai. Laziali e romanisti. I nuovi 5 stelle e i democristiani. La sinistra e la destra se (ancora) volete. Quella partita qualcuno l’avrebbe vinta alla fine e il risultato era già scritto. Uno a zero e di più nessuno avrebbe potuto. Dietro quell’Uno e quello Zero c’era il futuro? La partita era tutti contro tutti e solo Enrico Mentana avrebbe potuto ricavarne una logica. Carlo Freccero con la busta del supermercato, dove l’avevo visto al mattino, era silente. Forse pensava che, guarda un po’, un sacco di buone notizie erano arrivate negli ultimi giorni: il contratto degli statali dopo 7 anni, il Pil rivisto in crescita all’1%, persino il contratto dei metalmeccanici con la firma della mitica Fiom. Cattivi pensieri che Carlo non voleva assecondare mentre osservava un dribbling ubriacante di Romano Prodi che coricava i difensori. Mi accorsi che in panchina, lunghissima, era seduta un sacco di gente che avrebbe voluto giocare ma non poteva o forse non voleva davvero. C’erano tutti i direttori dei giornali, gli ex direttori e in piedi dietro i loro editori che gli poggiavano le mani sulle spalle. Se proprio non c’era l’editore, ne sono rimasti pochi o nessuno, c’erano gli amministrativi, gli amministratori delegati. I giornali erano solo di carta un tempo ma ora anche digitali e lì in panchina tanti digitavano sui social con i loro cellulari. I giornalisti, c’erano anche quelli, sulla panchina. Sbirciavano sui social e mentre scrivevano i loro articoli digitavano a loro volta sui propri account in un delirio più stordente del coro dei sì e dei no in campo. Dalla strada dietro il muretto veniva un brusio di fondo e qualcuno già diceva che fosse un sibilo quindi un sì e altri sostenevano che quel sibilo fosse un mugolare, qualcosa che finiva in “O”, anzi un Om, come nella giaculatoria, il mantra buddista “Oooomm”. Presto questa “O” divenne un chiaro no a detta di molti. Ci si divise su quel che fosse e a me era sembrato di sentire distintamente un “boh”. Soffocato, sussurrato, poi chiaro e nitido all’udito. Ero solo io a sentirlo così. Non potevo far parte di quella o quelle caste. Ero fuori dal consesso o ero solo nel 24 o 25% degli indecisi stimati dai sondaggi? Indeciso una parola che si usa ormai solo in senso dispregiativo. Tentai di levitare ma non riuscii a sollevarmi e solo allora mi accorsi che l’incubo era finito.
Incubi.
Era l’ora di svegliarsi del tutto e nel buio a occhi chiusi, come nei computer degli anni ’90, la mente delineò una schermata nera con una finestra verde. Il cursore lampeggiava e scrissi col pensiero il mio codice id. La schermata s’illuminò e divenne più chiara. In verde, carattere Geneva, comparve la scritta password. Composi anche quella col pensiero e solo allora aprii gli occhi. Non capivo come mai avessi voglia di acquistare un paio di polacchine con la fibbia. Oggi è il giorno del Derby Lazio-Roma e non saprete mai per quale squadra tifo né se, come e quando voterò; Se sì, se no se boh. E neanche dove. Unicuique suum.