Scacco a vista.

Marco Giannini

La vocazione visuale degli scacchi.

Concentrazione = capacità di focalizzare: in uno spazio ristretto come la scacchiera tutto si tiene, basta saperlo isolare dal contesto. Per questo i campioni di scacchi non pensano come i giocatori normali, perché sono maestri nell’arte di vedere solo quel che importa.

Mercoledì 30 novembre scorso il grande maestro norvegese Magnus Carlsen  ha celebrato il suo ventiseiesimo compleanno e il terzo titolo consecutivo di campione del mondo di scacchi, aggiudicandosi l’incontro con il grande maestro sfidante russo Sergey Karjakin.

La gara si è svolta a New York City, in una sala nel Seaport District. Sfruttando al meglio l’evento sportivo (sì, gli scacchi sono a tutti gli effetti uno sport professionistico), la FIDE (Fédération Internationale des Échecs) ha stipulato lucrosi contratti commerciali in qualità di ente organizzatore, e ha pubblicizzato la finale mondiale con grande successo: parecchi milioni di persone hanno assistito al match per quasi tre settimane, in streaming e attraverso diversi siti che commentavano le mosse in diretta. Tornei collaterali sono stati giocati durante la sfida mondiale tra il norvegese (una rockstar che ha da tempo abituato il mondo scacchistico alla sua informalità) e il russo, dal cognome che ricorda quello di un cavaliere Jedi.

Tutti si aspettavano una facile vittoria da parte del campione in carica, ma Karjakin ha giocato alla pari nei primi sette match, pattandoli tutti. Ben quattro volte su sette il Nero (in una sfida mondiale i giocatori si alternano nel gioco col bianco e col nero) ha utilizzato un’ostinata variante dell’apertura spagnola (o Ruy Lopez), la difesa di Berlino (colloquialmente definita Berlin Wall) che conduce spesso, se ben utilizzata, alla partita nulla. Carlsen ha sfiorato la vittoria solo nel terzo turno, ma non è riuscito a capitalizzare il vantaggio posizionale dopo quasi sette ore di gioco. Sempre più stanco, ha chiesto una pausa durante la quarta partita, e ha schiacciato un pisolino su un divano nell’atrio mentre il suo avversario meditava la mossa in una posizione critica.

Al quinto turno è stato il russo a sprecare un’occasione, per l’incerta condotta da parte del suo avversario nel mediogioco.

Dopo alcune rapide patte, Carlsen nell’ottava partita ha giocato un modesto sistema Colle, e Karjakin ha preso l’iniziativa. Il campione in carica è entrato in un finale difficoltoso (alfiere e regina + pedoni per lui contro cavallo e regina + pedoni per Karjakin) e alla fine ha capitolato.

Osserviamo la posizione nel diagramma, con la mossa al nero: il bianco ha un pedone in più ma i suoi pedoni sono arretrati, e non ci sono schemi di attacco a disposizione; il nero gioca la bellissima spinta di pedone a3-a2! che minaccia di andare a dama alla mossa successiva. Carlsen abbandona, perché la donna bianca non può mangiare il pedone fuggitivo pena lo scacco di cavallo nero in g4 che costa la partita al bianco: 53.Dxa2 Cg4+ 54. Rh3 (se 54.Rh1 o g1 allora 53…. Dc1+ e vince) Dg1.

Fermiamoci qui, per cominciare a parlare di scacchi e visualizzazione.

Per chi è interessato, la cronaca continua con un Carlsen insolitamente demoralizzato, che rischia seriamente di perdere anche la nona partita e ottiene poi una convincente vittoria in gara 10, riportandosi in parità. Le due successive sfide si risolvono in rapide patte. Si va così al tie-break, quattro partite rapide da 25 minuti per giocatore (con un incremento di 10 secondi per ogni mossa giocata) in cui Karjakin pareggia miracolosamente una partita quasi persa in gara 2, Carlsen vince la terza partita col nero inducendo il suo avversario in errore (causa scarsità di tempo) e trionfa nella quarta e ultima mediante uno spettacolare sacrificio di donna, proprio nel match in cui il suo avversario deve vincere e per questo gioca sotto ai suoi standard.

Una presentazione snella ma completa dell’evento intero è già su Wikipedia, corredata con alcune analisi di Fabiano Caruana (numero 3 al mondo): https://en.wikipedia.org/wiki/World_Chess_Championship_2016

Stavolta lo schema è muto.

Il gioco degli scacchi e la visualizzazione, si diceva, e intendiamo qui visualizzare nell’accezione più ampia, ben oltre la pratica dell’informazione grafica che un classico schema di scacchi come quello riportato più sopra può renderci.

Intanto però partiamo proprio da quello, e notiamo che in una qualsiasi posizione sulle 64 caselle della scacchiera –  come nel gioco vero è proprio – quel che più conta è ciò che può succedere, cioè la combinazione potenziale tesa ad ottenere un vantaggio concreto, se possibile decisivo: nella visualizzazione della posizione, con i pezzi disposti in un certo modo e prima di ogni analisi, la soluzione rimane nascosta né saltano agli occhi suggerimenti visibili, in questo differendo radicalmente da un’infografica. Laddove quest’ultima deve fornire un andamento di lettura, lo schema scacchistico non accenna la mossa migliore, perché la lettura di esso è nelle regole del gioco, è anzi il gioco stesso: trovala tu!, sembra dirci, invitandoci a partecipare (come in un problema di scacchi).

Allo stesso modo la sua rappresentazione visuale equivale a una istantanea di gioco, come una fotografia sportiva con una palla che corre tra i partecipanti, ne attrae lo sguardo e attorno alla quale le mosse si distribuiscono. Un fermo immagine che seziona la realtà come una lama.

Una struttura coesa e interdipendente.

In una partita “coi legnetti” la situazione evolve dopo ogni mossa, i rapporti tra i pezzi mutano e l’attenzione dei giocatori si sposta; il famoso linguista ginevrino Ferdinand de Saussure  – appassionato praticante del nobil gioco – usava spesso nelle sue lezioni la metafora degli scacchi per spiegare il valore delle parole nel tessuto sintagmatico, e il suo mutare nella mente dei dialoganti via via che nuove parole si aggiungono e il discorso si trasforma.

In effetti una posizione è di fatto un’intelaiatura di relazioni tra i pezzi, con una gerarchia interna e un corredo di regole valide in tutte le situazioni; proprio come all’interno di una rete di rapporti tra persone (per esempio una rete malavitosa), nel gioco alcuni pezzi sono più potenti di altri, da certe caselle estendono il proprio controllo su altre (fanno la guardia) e così via: uno schema scacchistico riporta tutto questo secondo certe convenzioni (la geometria della scacchiera, la sagoma e il colore dei pezzi, che sono tutti codificati a livello internazionale) e un eventuale commento, in sede di analisi, utilizza anch’esso un codice linguistico che usa lettere e numeri (da a1 a h8), iniziali che designano i pezzi (K = re, Q = regina, R = torre, etc.).

Convenzioni che però possono essere modificate, perché appunto quel che conta è il rapporto tra i pezzi. Ferme restando le regole, essi possono essere sostituiti da altri oggetti perché la loro materialità è del tutto arbitraria: nei Paesi dell’Est europeo capita ancora di imbattersi in partite improvvisate con strumenti di fortuna su una tovaglia a quadri. Si trovano in vendita anche set scacchistici di fantasia, che suggeriscono la realtà intellettuale del gioco.

Benché i movimenti dei pezzi siano chiamati mosse, gli scacchi sono caratterizzati soprattutto dalle lunghe pause tra queste, durante le quali il calcolo delle varianti si srotola come un tappeto nella mente dei giocatori. L’immobilità dei pezzi favorisce la concentrazione (che appunto si con- centra su certe caselle e su determinati movimenti) e interrompe l’azione continua, dando vita a un andamento sincopato.

Guardarsi giocare

Già, le mosse: i novizi si soffermano sulla capacità dei maestri di prevederne un numero cospicuo, e trascurano il tessuto del ragionamento, un flusso ininterrotto di pensiero che le annoda come perle.

Nihil admirari diceva il poeta, non a caso utilizzando un lemma che in comune con il verbo vedere ha la radice (mir-): e infatti per comprenderle appieno non dovremmo stupirci delle capacità altrui. Se l’arte della combinazione scacchistica ci resta preclusa è perché essa vive nella mente dei maestri, lì traslocata direttamente dalla plancia di gioco.

Da lungo tempo ha preso piede tra i professionisti e gli amatori l’allenamento senza la scacchiera, il ragionamento sulla sola immagine mentale di essa. Si chiama blindfold chess, o scacchi alla cieca, ed è un esercizio di distacco necessario, perché raffredda l’emozione e rinforza la concentrazione: come davanti a un filmato di se stesso, lo scacchista si ritrae dalla scacchiera per poterla valutare obiettivamente.

In un saggio del 1894 (Psychology des grands calculateurs et jouers d’éches) lo piscologo Alfred Binet individuò tre tipologie di giocatori di scacchi alla cieca: coloro che avevano una rappresentazione fedele di essa, come una specie di fotografia; coloro che avevano una rappresentazione meno fedele, in cui era evidenziata la dimensione dei pezzi più grandi e il resto appariva più sfumato e impreciso; infine coloro che visualizzavano unicamente i movimenti e le azioni potenziali dei pezzi, ignorando i pezzi non coinvolti in una determinata fase della partita.

Sorprendentemente fu il terzo gruppo a ottenere i risultati migliori nel gioco alla cieca e nei match che Binet organizzò per il suo esperimento. In pratica ciò servì a dimostrare allo psicologo francese che i maestri non calcolavano visualizzando a ogni mossa l’intera scacchiera. I requisiti principali erano quindi l’immaginazione e la memoria, nonché ovviamente la loro erudizione scacchistica.

Il valore dei pezzi.

Dunque al modello mentale della scacchiera si affianca un ragionamento specifico sul ruolo dei pezzi in gioco e di quelli fermi, ancora nelle case di partenza o fuori dal vivo dell’azione. Diciamo che su questo contesto, ancorato alla geometria della scacchiera, si basa la capacità speculativa del giocatore, e quanto più essa è circostanziata e precisa, tanto meglio il giocatore esprime il suo talento combinatorio.

Concentrazione come capacità di ritagliarsi uno spazio. Non c’è molta distanza tra una scacchiera e una mappa militare, e infatti si dice che gli scacchi siano la migliore trasposizione ludica della guerra. Anche il vocabolario tecnico, da “arrocco” a “zugzwang” (parola tedesca che indica una specifica situazione di gioco in cui un colore è obbligato a muovere indebolendosi), risuona del clangore di spade e battaglie.

Come monumenti che rievocano grandi scontri, si ergono partite che hanno fatto la storia degli scacchi, connotate dal titolo potente (“L’immortale”, “La sempreverde”) o dal nome del genio scacchistico che l’ha inventate. Migliaia di match vanno a comporre tutti insieme gli archivi degli scacchi (di epoca moderna), riempiono i libri di scienza delle aperture e dei finali, costruiscono la fabbrica inesauribile del mediogioco con tutte le sue peripezie. Perché la pratica dei grandi maestri, mutevole nel tempo e nelle scuole più famose al mondo (su tutte la Russia zarista e poi comunista), diviene la teoria dei giocatori comuni e si propone come base per nuovi studi, a disposizione delle nuove generazioni.

La ricerca statistica.

C’è naturalmente chi ha impiegato del tempo per studiare questi database non solo con l’obiettivo di irrobustire il proprio curriculum di torneo, e spesso ha impostato la propria ricerca sulla visualizzazione:

-Randal Olson, un ricercatore statunitense di computer science, ha costruito un sito web che illustra la storia delle aperture scacchistiche in oltre 650 mila partite di torneo, dal 1850 a oggi: http://www.randalolson.com/2014/05/26/a-data-driven-exploration-of-the-evolution-of-chess-popularity-of-openings/

– Un  interessante statistica sulle chance di sopravvivenza di ciascun pezzo è stata completata e più volte aggiornata da Oliver Brennan, programmatore e giocatore amatoriale, sulla base di oltre 2,2 milioni di partite magistrali: https://www.quora.com/What-are-the-chances-of-survival-of-individual-chess-pieces-in-average-games

-L’estetica del viaggio si ritrova in una serie di grafici di frequenza applicati alla scacchiera (realizzati da Joshua Kunst), in cui sono mostrate le case più frequentemente usate da ciascun pezzo: http://imgur.com/a/pYHyk/layout/grid. (Geniale anche il vademecum per realizzarli)


Rebel13  è un giocatore olandese che accumula notizie, oggetti e partite che hanno coinvolto dagli anni ’80 a oggi computer e software dedicati agli scacchi; il più ampio studio di statistica visuale applicata agli scacchi è stato pubblicato da ebemunk, un programmatore canadese che ha analizzato il database scacchistico MillionBase traendone interessanti conclusioni: nell’archivio in questione le aperture di Re mantengono la quota più alta (1), la maggior parte delle partite termina intorno alla 40ª mossa nera (2), ben poche partite finiscono con uno scacco (quando di solito uno dei due colori abbandona, ma non per forza) e ancor meno con uno scacco matto (3), infine la quantità di pezzi in gioco decresce – come facilmente prevedibile – col passare delle mosse (4), attestandosi su un valore tra 12 e 13 che corrisponde di solito a un pezzo minore più tre pedoni (la scala standard è pedone = 1, alfiere e cavallo = 3, torre = 5, regina = 9).

Davvero un bel lavoro di data visualization, prodotto grazie alla potente libreria D3js .

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