Marco Giannini
Educazione a rovescio, educazione alla pratica, educazione alla programmazione.
Prendo spunto dalla morte del linguista Tullio De Mauro , del quale ho avuto la fortuna di essere allievo, per condurre una riflessione personale sull’educazione alla pratica di una disciplina e sul mondo della scuola. Premetto che non sono un esperto di pedagogia, anche se sono figlio di un professore, e a parte qualche breve intervento rivolto a colleghi professionisti non ho mai insegnato in un corso di studi, a qualsiasi livello.
A lezione De Mauro parlava spesso di scuola. Per lui l’educazione della popolazione – lo sappiamo – è stata una missione civile ancor prima che politica e professionale, in particolare sostenerne il cervello, la parte più alta e nobile, il ceto docente. Si spese peraltro, durante il suo mandato da ministro (dal 2000 al 2001 nel governo Amato II), per nutrire di quella parte anche la pancia ma senza apprezzabili risultati.
Un’infografica pubblicata su Repubblica nell’agosto 2014 dà conto dei livelli retributivi degli insegnanti della scuola pubblica italiana (fonte Miur).
E ovviamente De Mauro parlava a lezione soprattutto di lingua, proiettata nella dimensione sociale (qui un altro sunto del suo impegno e del riflesso sulla scuola italiana), tra l’altro in termini di libertà d’uso, direttamente derivante da conoscenza e ricchezza (in questo caso termini sinonimi), e di uguaglianza di accesso. Perché lui conosceva la società italiana attraverso la lingua, e gli sarebbe piaciuto di cambiarla attraverso l’educazione al buon uso della stessa.
Un discorso sospeso.
L’educazione in Italia è affidata in gran parte a insegnanti selezionati e stipendiati dallo Stato, e lo è innanzitutto per necessità: lo Stato è tanto più buon educatore quanto più è invasivo, insofferente verso ogni gerarchia diversa dalla propria. E infatti, a ben guardare la storia, l’educazione appare “più efficiente” nei Paesi totalitari dove, a ricalco della linea politica interna, si persegue l’intenzione di ottenere dal ciclo scolastico – al suo termine e anche prima – un cittadino conforme a favore di uno Stato più forte. Quest’ultima fu anche l’anima della riforma Gentile, un’impostazione positivista – ispirata alla società precedente il ventennio fascista – che non ha più visto modificazioni sostanziali da oltre settanta anni. Anzi, da allora in poi ogni generazione ha visto nelle frequenti e parziali riforme scolastiche uno scadimento rispetto agli standard del suo tempo.
L’educazione (dal lat. e-dūcere, “tirar fuori”) era allora ed è ancora il seme della politica, di qualsiasi politica, e oggi come allora si alimenta del pregiudizio che un individuo cólto (dal lat. colĕre, “coltivare”) dia maggior valore alla collettività, la quale pertanto premia lo studio e gli riconosce valore sociale, almeno a parole.
L’educazione è però anche necessariamente autoritaria, va dall’alto verso il basso e non è in nessun modo democratica perché non può realmente esserlo, tranne quando viene almeno in parte demandata alla famiglia (non certo il nostro caso per via di diffusa ignoranza, e questo De Mauro lo diceva spesso), là dove le asperità di un bambino possono essere limate per farne un adulto. Ridurlo però a ingranaggio della società, cioè a cittadino, è cura dello Stato e quindi obiettivo politico di lungo termine. Così dovrebbe essere anche nel nostro Paese, cui la descrizione di sopra si attaglia benissimo, togliendo la parte sulla dittatura.
La storia novecentesca ci ha consegnato esempi disastrosi di deriva collettiva proprio in Paesi con un’alto grado di erudizione (dal lat. ex-rūdus, “(fuori) dalla materia grezza”) individuale e una potente tradizione idealista (Germania). Ma evidentemente non ci ha dato anche gli strumenti per cambiare fino in fondo, proprio a partire dalla scuola.
Spinte all’innovazione.
L’insegnamento di De Mauro si pone all’incrocio di diverse istanze: rinforzo della scuola pubblica, insegnamento capovolto, istruzione degli adulti, e parecchie di queste risultano ancora innovative, perché in molti casi mai applicate, forse mai nemmeno seriamente discusse dalla pubblica opinione e dalla politica scolastica nazionale. Se della forza e della cogenza della parola – di ogni parola – De Mauro fu un alfiere, un corredo di dati e qualche visualizzazione può aiutare a far chiarezza almeno in me: di questo il professore mi perdonerebbe.
1. LEZIONE CAPOVOLTA
Sovvertire la “lezione frontale” (quella dell’aula universitaria) e mutarla in flipped classroom (il metodo viene dagli Usa), per utilizzare al meglio il tempo della scuola e instaurare un dialogo tra docente e discenti sulla base di una conoscenza comune.
Eh sì, perché se gli scolari studiano a casa il giorno prima, in aula il giorno successivo sapranno di che si parla, e ci sarà tempo per approfondire, spiegare, personalizzare.
Ad essere capovolti sono in particolare due momenti tipici della giornata di ogni studente: la lezione frontale viene sostituita dall’auto-preparazione, da soli a casa il giorno prima, sui libri ma anche guardando video registrati e sezioni dedicate dei siti Internet della scuola o di altre piattaforme specializzate (per esempio l’italiana Oilproject ); i compiti per casa invece si fanno a scuola insieme ai professori, che fanno svolgere alla classe esercitazioni e sviluppano spunti dei singoli, dei dubbiosi che hanno dovuto riguardare i materiali didattici più volte ma anche dei più bravi che durante una lezione classica si annoierebbero, e che invece a casa possono saltare i moduli che già conoscono.
Nel merito, il sito di riferimento in Italia è lezionecapovolta.
Qui un esempio visuale in un paio di infografiche pubblicate da Repubblica nel 2014 e 2015:
Il rovesciamento di piano però non avviene solo grazie alla tecnologia, anche se questa aiuta non poco: la lavagna elettronica in classe, alla pari del computer a casa, è uno strumento in più, non un sostituto del professore. Vale comunque la pena dare una scorsa a un estratto del rapporto Ocse, pubblicato da Repubblica nel 2015, riguardante il rapporto tra tecnologia multimediale e studenti in Europa.
Gli ultimi test Pisa alla base della ricerca dell’Ocse sono del 2016 , l’infografica risale al 2015 ma la tendenza non varia: com’è noto la scuola italiana, pur sopra la media Ocse per risultati raggiunti, si piazza nella metà inferiore della classifica, mentre tra i membri più in alto nella stessa figurano quei Paesi che innovano (da molti anni in verità) gli strumenti didattici anche facendo uso della tecnologia più avanzata.
Il precedente rapporto Ocse del 2013 peraltro fotografa una situazione drammatica: le competenze linguistiche e matematiche degli adulti italiani sono tra le più basse nei Paesi Ocse, il che ha un riflesso negativo anche sulle prestazioni dei loro figli impegnati a scuola.
2. INSEGNAMENTO A ROVESCIO.
La logica dell’insegnamento scolastico mira a capovolgere l’attitudine dei bambini alla spontaneità. Sostituisce la loro capacità di riconoscere l’esistente guardando, toccando e assaggiando con un intreccio di categorie astratte, che al loro apice convergono in macro-categorie ancora più astratte. In poche parole, l’insegnamento rimpiazza l’apprendimento naturale che va dall’oggetto al nome e al concetto con una cultura che va dal concetto all’oggetto. E sostituisce i nomi dati dai bambini alle cose con i suoi.
Non va bene? Forse sì, ma è lampante che questo processo instauri una spirale quasi infinita di critica, in cui il rapporto tra realtà e spiegazione rischia di confondersi, soprattutto nella testa di un ragazzo. Per lui, insomma, andare a scuola è all’inizio un po’ come guidare contromano. Perché una cosa è imparare a parlare per concetti presi a prestito, un’altra è arrivare a formare quei concetti passo passo, seguendo un modello di ragionamento che pone l’esperienza innanzi alla conoscenza.
Ho sempre apprezzato quei professori di scienze che portano in aula un osso di pollo e gli dànno fuoco davanti agli occhi stupiti degli scolari, col fine di formare lo zucchero sul piano della cattedra. Oppure che riempiono una boccetta d’acqua e una di mercurio e le fanno passare di mano in mano, per spiegare il concetto di peso specifico. Non è molto ma è già qualcosa per recuperare, o almeno non abbandonare del tutto, il senso di marcia “naturale” della conoscenza. Per fare tutte queste cose serve tempo (ricavato applicando il metodo della classe capovolta, come spesso arguito da De Mauro ), e quindi è necessario che la scuola rimanga aperta ben oltre l’orario delle lezioni.
E infatti una scuola aperta il pomeriggio e la sera, come nel progetto )scuoleaperte( è ormai realtà in molti centri italiani. Prevede laboratori scientifici e artistici per lavori di gruppo, utilizzo degli spazi aperti per concerti mostre conferenze e feste, utilizzo della biblioteca scolastica (e quindi sua cura), aule a disposizione per lezioni di lingue e così via. Fossero tutte così le scuole, sarebbero il centro pulsante di ogni quartiere, di ogni città.
3. EDUCARE ALLA PROGRAMMAZIONE.
Visto che si parla di logica, un buon allenamento per sviluppare questa capacità (integrata nella lingua) è insegnare ai bambini e ai ragazzi a utilizzare semplici linguaggi di programmazione già dalla scuola primaria, poi via via fino al termine della scuola dell’obbligo.
Molti ricorderanno il successo di Arduino (https://www.arduino.cc/), un pacchetto hardware composto di schede elettroniche, un controllore a distanza e un ambiente software libero. Successo bissato di recente da Raspberry PI , un calcolatore montato su una singola scheda elettronica, molto economico e di facile utilizzo, progettato per stimolare l’insegnamento dell’informatica e della programmazione nelle scuole. Entrambi questi strumenti possono fungere da piattaforma di sperimentazione in un laboratorio scolastico di base, dove con l’assistenza di un istruttore gli scolari imparano a collegare circuiti e impostare e controllare funzioni di accensione/spegnimento, movimento e altro mediante sensori. In circa 15 anni Arduino ha riscosso un grande successo commerciale e ha riempito i laboratori scolastici del pianeta, mentre Raspberry PI sta avendo una commercializzazione capillare soprattutto nel Regno Unito, dove molti investitori sono privati.
A parte l’ovvia ricaduta positiva sul lavoro e i possibili sviluppi professionali per i nostri figli (in diversi campi l’autoproduzione di software o almeno la dimestichezza con esso è già attuale), insegnare programmazione a scuola dovrebbe rinsaldare quel processo prima menzionato di modellizzazione della realtà, attraverso la capacità di leggere (e scrivere) un linguaggio altamente formalizzato, “pulito” di ogni contestualità e interferenza linguistica e semmai piantato sulla dialettica intercorrente tra la considerazione di un problema e la sua soluzione (un passo alla volta come nei diagrammi di flusso, ma anche dialettica in senso platonico, come ricerca maieutica pilotata da un conduttore/educatore).
La vecchia scuola novecentesca premia la padronanza della variazione stilistica, a cui la nuova scuola dovrebbe aggiungere la capacità di risoluzione dei problemi, stimolata dall’introduzione a una disciplina che può risultare persino divertente per i bambini. Certo è necessario porre attenzione al modo in cui l’alfabetizzazione digitale viene proposta: bisogna distinguere tra reale e astratto, indirizzare i quesiti nella direzione che l’esperienza percorre verso il concetto (“come posso far luce in questo ambiente?” “Accendendo una lampadina.” “Bene, come faccio a comandare questa lampadina?” “Usando un interruttore” “Come accendo l’interruttore?” e così via, e non invece debuttando con una lezione frontale sulla corrente trifase e i commutatori a slitta). E sottolineando il valore aggiunto che proprio l’esperienza trova nella completezza: fare aiuta a capire, ovviamente, e la vera conoscenza è la pratica di una disciplina.
Il paradiso è un posto – diceva Mark Twain – dove chi usa un oggetto sa anche come è fatto. Ragione ancora più valida oggi che usiamo continuamente decine di software differenti senza nemmeno farci caso.
In fondo, come ci informa questo accorato intervento di un genitore-ingegnere, i nostri figli programmeranno i software che useremo in futuro.
Va detto che la tanto aborrita Buona scuola già introduce elementi di insegnamento della programmazione attraverso l’attivazione del portale Programma il futuro, agganciandosi alla celebrazione mondiale dell’Ora del Codice (qui il comunicato ministeriale). Il portale è rivolto ai docenti delle scuole italiane e fa leva sulla loro responsabilizzazione, perché prevede che ogni istituto incarichi un singolo insegnante di sensibilizzare e coordinare il lavoro di tutti i coinvolti, colleghi studenti e operatori nella struttura. Un progetto che teorizza quindi anche il convergere di materie e insegnanti diversi in una sola lezione.
IN EUROPA.
Il vecchio continente si sta adeguando alla spinta modernizzatrice: il rapporto 2015 di Euractiv ci informa che 15 Paesi Ue su 28 (la Uk è ancora considerata Stato membro) hanno già incluso nei programmi scolastici dei corsi di introduzione all’informatica e alla programmazione, e di questi ben 9 (Estonia, Inghilterra, Francia, Spagna, Ungheria, Polonia, Belgio, Portogallo e Finlandia) anche nella scuola primaria. Di seguito una infografica (pubblicata su Repubblica nel 2015) che confronta la segmentazione del percorso scolastico in 8 tra i Paesi maggiori e l’introduzione delle ore di programmazione nel ciclo di studi.
IL CASO-INGHILTERRA.
I corsi di programmazione sono obbligatori nelle scuole secondarie superiori inglesi dal 2015. E diversi cicli sono stati attivati nelle scuole primarie fin dal 2012, alimentando la discussione dell’opinione pubblica sulla qualità dell’insegnamento informatico. Con tutta evidenza, sul tema l’Inghilterra è più avanti del resto d’Europa. Le scuole del Regno utilizzano estensivamente piattaforme per l’e-learning dei codici come Coderdojo, una palestra digitale (dojo in giapponese è la palestra per arti marziali) inventata nel 2011 per insegnare la programmazione agli amici e replicata in 165 città nel mondo, e Codemotion, una start up che organizza conferenze sulla tecnologia e che nel 2015 ha creato Codemotion Kids, i corsi per bambini.
L’economia digitale è già la locomotiva del post-crisi nel regno, e infatti gli impieghi nel campo sono cresciuti di numero oltre tre volte la media effettiva tra il 2009 e il 2012. Anche se le preoccupazioni in materia scolastica rischiano di arrivare in ritardo rispetto all’esplosione del settore, l’importanza dell’apprendimento della programmazione è chiara agli analisti della city: “senza l’apporto della digital economy, Londra sarebbe ancora in recessione” ha detto nel 2011 Andreas Schleicher, direttore e coordinatore del programma Ocse per l’educazione.
NEGLI STATI UNITI.
Data la grande frammentazione del sistema scolastico statunitense, il dibattito laggiù verte soprattutto sulla diffusione di standard di programmazione nelle fasce di lavoratori e della sua penetrazione nel mondo della higher education (https://www.fastcodesign.com/3050675/designers-should-design-coders-should-code). Eppure gli standard professionali sono molto alti, e i maggiori impulsi all’innovazione – com’è noto – arrivano proprio dagli States.
Tra le innumerevoli risorse provenienti da oltreoceano e rivolte ai giovanissimi val la pena segnalare: madew/code di Google, rivolto soprattutto alle ragazze, con molti tutorial rinnovati periodicamente di livello basico e medio;
Scratch, un linguaggio sviluppato dal Mit che serve a creare animazione e storie accostando “blocchi” di racconto come i nodi di un software.
Hour of Code di Tynker, una raccolta di giochi intuitivi che rendono agevole imparare “computational thinking and programming skills”, con una parent section per far seguire i progressi ai genitori.
Code.org è stato lanciato nel 2013 per promuovere l’accesso alla computer science a scuola, e ospita al suo interno molti vademecum per muovere i primi passi nella programmazione, genitori e figli insieme.
Computing della Khan Academy introduce diversi concetti ai bambini, con la possibilità di apprendere a programmare seguendo un proprio ritmo.
Il fattore ludico è un ponte per trascinare bambini e ragazzi a studiare; ecco allora cubetto, una giocattolo programmabile per istruire un robot a percorrere un cammino e compiere funzioni, sfruttando la caratteristica ricorsività dei codici di programmazione.
Sulla stessa base concettuale poggia Lightbot, uno spassoso gioco per computer (e ora un’app) con già parecchi anni sulle spalle. Una buona ragione per insegnare a programmare è nel principio di uguaglianza: dare a tutti una possibilità, anzi, le stesse reali possibilità almeno in partenza, appare ciclicamente tra i principali indirizzi politici di ogni partito democratico occidentale, da J.F.K. In poi.
Aggiungerei che abbiamo già da tempo un’istituzione che promuove l’uguaglianza fin dai primi passi, ed è proprio la scuola pubblica, laica, capace di rinnovarsi. Per far sì che almeno una parte delle nostre colpe non ricadano sulle prossime generazioni, cerchiamo di aiutar quelle a lasciarci indietro, almeno nella formazione, altrimenti cadremo in antiche contraddizioni.