Spazio all’immaginazione.

Marco Giannini

I mondi possibili e l’osservazione di quel che non si può osservare (per ora)

Alziamo lo sguardo al cielo per cercare similarità tra il nostro mondo e le stelle lontane, dove si proiettano i nostri sogni più remoti. Ma in fondo è sempre la solita vecchia storia: senza immaginazione non siamo umani, e senza informazione (correttamente riportata e/o disegnata) non siamo capaci di immaginare.

Un’illustrazione ipotetica del sistema planetario Trappist-1 dalla superficie di uno dei suoi pianeti. Nel piano celeste sono visibili tre dei sette pianeti complessivi e la stella attorno a cui orbitano (Nasa/JPL Caltech).

Rappresentazione schematica dei sette pianeti di Trappist-1, ordinati secondo il periodo orbitale (in giorni terrestri) e confrontati con i 4 pianeti rocciosi del nostro sistema solare. Per ciascun astro sono anche elencati la distanza dalla stella più vicina, il raggio e la massa planetaria (Nasa/JPL Caltech).

Poche settimane fa la Nasa ha annunciato di aver scoperto un sistema stellare popolato da sette pianeti in orbita attorno alla stella Trappist-1 . I pianeti, che in base alle rilevazioni di massa e al periodo orbitale risultano essere tutti rocciosi, sono molto vicini alla stella; ma essendo Trappist-1 una nana rossa , cioè una piccola e giovane stella di classe M8, la temperatura che questi pianeti raggiungono per irraggiamento è compresa, almeno per tre dei sette, tra 0 e 100 gradi centigradi, rendendoli capaci di ospitare acqua allo stato liquido, e quindi, potenzialmente, forme di vita.

L’intero sistema stellare può essere iscritto in uno spazio relativamente piccolo, almeno rispetto a quello

Il sistema Trappist-1 a confronto col Sistema solare (Nasa/JPL Caltech). In verde la Goldilocks zone

occupato dai pianeti più vicini al nostro sole. Trappist-1 e i suoi sette pianeti stanno comodamente entro l’orbita di Mercurio (circa 70 milioni di km in afelio, 46 milioni di km in perielio), come si deduce dalle numerose infografiche pubblicate dal Nasa/Jet Propulsion Laboratory dell’università della California. Qui al lato a destra, in verde è rappresentata anche la zona abitabile o Goldilocks zone.

Il sistema Trappist-1 a confronto col Sistema dei satelliti galileiani di Giove (ESO).

La rappresentazione più suggestiva (a sinistra) è forse quella che mostra il sistema Trappist-1 paragonato a Giove e ai 4 satelliti galileiani, per similarità di periodo orbitale (in giorni, espresso in basso sulla linea segmentata).

Il nutrito gruppo planetario era stato già individuato nel maggio 2016 da una squadra di astronomi guidati da Michaël Gillon dell’università di Liegi, ma soltanto in numero di 3; la posizione orbitale del più esterno (nell’immagine qui sotto segnalato da “d?”), peraltro non pienamente accertata, aveva suggerito la presenza di altri pianeti, e per questo nuove osservazioni sono state condotte, sfruttando anche il telescopio spaziale infrarosso Spitzer.

Le due fasi dell’osservazione (Nasa/JPL Caltech).

Analizzando i dati, gli astronomi hanno potuto identificare 4 nuovi pianeti, portando il numero complessivo di pianeti appartenenti a questo sistema planetario a 7 membri, denominati Trappist-1 b,c,d,e,f,g, h in ordine crescente di distanza dalla stella

Un grafico che illustra la diminuzione della luminosità di una stella a causa del transito di un esopianeta (Nasa).

I 7 pianeti orbitanti attorno a Trappist-1 sono stati osservati indirettamente grazie al loro transito di fronte alla stella madre, transito che ne causa appunto una diminuzione della luminosità, ripetuta a periodi di uguale durata. Una volta misurato il periodo orbitale, la terza legge di Keplero  permette di calcolare la massa del pianeta.

(University of Colorado Boulder)

La maggior parte degli esopianeti finora osservati e confermati (a marzo 2017 sono 3.313), secondo il database di Exoplanet è stata trovata grazie al metodo Doppler: quando  due oggetti celesti (e più in generale due corpi massivi) ruotano uno intorno all’altro, il centro delle loro orbite coincide con il centro di massa del sistema, e quest’ultimo, anziché trovarsi a metà strada tra i due corpi o coincidere con uno di questi, è più vicino al corpo di massa maggiore. Nel caso di un pianeta extrasolare, la sua presenza fa sì che la stella attorno alla quale orbita descriva un contenuto movimento circolare ad ogni rivoluzione del compagno. Tale perturbazione ha come conseguenza uno spostamento della luce emessa dalla stella stessa: nella fase in cui la stella si allontana dall’osservatore (cioè da noi), la frequenza della sua luce si sposta verso il rosso; quando invece si trova nella fase di avvicinamento, la luce si sposta verso il blu.

Le osservazioni compiute sul sistema Trappist-1 nella seconda metà del 2016 sono riassunte in questo grafico a dispersione, dove i dati della luminosità della stella (le nuvole di puntini neri in alto) registrano flessioni regolari, associate in basso (sull’asse orizzontale) al numero di giorni trascorsi.

(Nasa/JPL Caltech).

La risultante riportata qui di seguito permette di ipotizzare l’esistenza delle “sette sorelle” (così chiamate per la loro decisa somiglianza con la nostra Terra), secondo il periodo di oscuramento della stella (nel grafico a sinistra) e la distanza orbitale in unità astronomiche (AU, nel grafico a destra).

Il curioso nome di questa stella deriva dal TRAnsiting Planets and PlanetesImals Small Telescope south (Trappist-south), un telescopio da 60 centimetri di apertura installato all’Osservatorio di La Silla sulle Ande e gestito dall’Università di Liegi, usato nella fase iniziale delle osservazioni.

Vedere l’invisibile

Questa serie di infografiche di carattere scientifico – di solito riproposte dalle testate giornalistiche di tutto il mondo dal 22 febbraio in poi senza che qualche giornalista si preoccupasse di illustrarli – spiega con semplicità due cose: la prima è che là fuori da qualche parte, a circa 40 milioni di anni luce da noi, esiste un sistema planetario che conosciamo indirettamente (perché non lo abbiamo osservato col telescopio ma ne abbiamo dedotto l’esistenza dalla diminuzione della luminosità di una stella). Ciò nondimeno si tratta di una scoperta scientifica sensazionale: torneremo su questo aspetto più avanti.

(Eso)

La seconda ci interessa più da vicino, perché pone chiaramente dinanzi ai nostri occhi la capacità enunciativa di una infografica: un artefatto che seleziona e ordina i dati gerarchicamente, propone una tesi e la dimostra proprio in base ai dati di partenza. E in questo caso fa qualcosa di ancor più importante: mostra ciò che non si può vedere, ci porta davanti a un’immagine che non possiamo scorgere con i nostri occhi, perché non possiamo spostarci a 40 anni luce da qui, e non disponiamo di telescopi abbastanza potenti per osservare quei sette pianeti.

Tranne rari casi, infatti, la luce di stelle lontane è troppo forte perché i telescopi terrestri e in orbita (come lo Space Hubble) riescano a distinguere pianeti in orbita attorno ad esse; rari casi come questo (il primo di un totale di due), in cui è stato possibile individuare in un’immagine diretta la luce (riflessa) di un esopianeta.

Poter contare su questa capacità di sintesi non è cosa da poco, perché unendo le due caratteristiche l’infografica diventa la macchina fotografica della nostra immaginazione, e un linguaggio di traduzione per situazioni remote, astratte o semplicemente supposte assai più efficiente della nostra lingua storico-naturale, in termini di economia (durata e complessità degli enunciati) e ambiguità.

(Jacob O’Neal).

(La Vanguardia).

Per accorgersene basterebbe provare a scrivere un breve testo equivalente a uno di questi schemi, oppure – cimentandosi in qualcosa di completamente differente – provare per esempio a spiegare a parole com’è fatto un bulbo oculare e quali sono e come influiscono le malattie più comuni della vista. Oppure, sempre per fare un esempio, spiegare a parole come funziona un motore a scoppio, fase per fase.

Evocare o suggerire?

La ricostruzione, la sezione, lo spaccato sono nomi provenienti da altre discipline applicati su piccola scala all’infografica giornalistica. Gli anglosassoni li chiamano cross section, o cut-away schemes. Senza risalire nel tempo alle illustrazioni scientifiche di Leonardo da Vinci, possiamo facilmente appurare che costituiscono un valido strumento nella divulgazione tecnico/scientifica, e come ci ricorda un ricco archivio di illustrazioni del passato, esistono da almeno 6 decadi.

(Popular Science, 1952)

Nel fornire informazione. questi artwork propongono un approccio specifico al fatto giornalistico che include un punto di vista, una prospettiva. Differiscono dall’infografica che utilizza grafici in quanto non richiedono al lettore uno sforzo di astrazione, ma tentano al contrario di ambientarlo nella migliore posizione osservativa, all’interno dell’immagine riprodotta. Sono utilizzati spesso per rappresentare nel dettaglio una situazione o un avvenimento nella sua evoluzione dinamica, come nel caso di un attentato.

Queste infografiche vivono in media poche ore, assieme con la notizia che accompagnano. Non hanno di solito grande accuratezza perché vengono prodotte in corsa, e perdono di interesse nei giorni successivi quando sul fatto giornalistico emergono nuovi particolari. Che siano uno strumento informativo di grande potenza è assodato, ma ci sono dei se e dei ma di cui tener conto: innanzitutto il grado di approfondimento.

(La Repubblica)

Tra gli specialisti di infografica giornalistica ferve il dibattito: al fine di avviare il lettore a una tesi, si deve rappresentare quel che si sceglierebbe di non scrivere, per esempio a causa di mancanza di completezza nelle informazioni disponibili? L’infografica è a tutti gli effetti un pezzo giornalistico, portatore ‘responsabile‘ di notizie, pertanto non dovrebbe essere utilizzato per suggerire e ammiccare, ma dovrebbe essere basato solo sulle informazioni conosciute. I giornali tendono invece a far disegnare quel che non vogliono scrivere, conferendo all’infografica un ruolo ancillare, riempitivo, e sostituendo al commento del fatto la suggestione di un’immagine.

Per chi fosse interessato, rimando a un paio di buoni libri: il commerciale Look Inside , un volume di Juan e Samuel Velasco edito pochi mesi fa da Gestalten, interamente dedicato al Cutaway Illustrations; e The functional art di Alberto Cairo, che contiene riflessioni sulla correttezza informativa di una infografica.

Ritorno nello spazio

La scoperta del sistema Trappist-1 ci riconduce a una domanda che ciclicamente si affaccia tra i membri della comunità scientifica e nelle pagine dei giornali di tutto il mondo: siamo soli nell’universo? Se mai un giorno sarà data, la risposta a tale domanda è destinata a scuotere i fondamenti della nostra comprensione dell’universo, e del nostro posto in esso, fin nelle basi della nostra conoscenza scientifica e delle nostre credenze religiose e filosofiche. Qualunque risposta, sia essa positiva o negativa.

La nostra identità di esseri umani è scolpita nella presunzione che noi siamo peculiari, speciali. In linea di massima riteniamo di essere l’unica specie intelligente presente sull’unico pianeta che ospita la vita, perciò ci poniamo al centro del cosmo, valorizzando la nostra supremazia. Tutto quel che sappiamo della vita lo dobbiamo alle osservazioni che compiamo qui sulla Terra, su come prolifera e su come supponiamo si sia formata. Deduciamo che la vita, per esistere, necessiti di acqua e carbonio, e con una semplice estrapolazione concludiamo che se mai troveremo altri luoghi dentro o fuori il nostro Sistema solare dove esistono l’acqua e le molecole complesse basate sul carbonio, probabilmente vi troveremo anche vita.

La chimica ci dice che la vita è basata sul carbonio, il più leggero e abbondante elemento con 4 valenze, le quali possono formare legami con altri atomi, legami singoli o doppi, abbastanza forti da disporsi in lunghe catene anche cicliche come gli idrocarburi, ma non troppo forti ’sì che a date condizioni quei legami atomici possano anche essere rotti.

Per questo il carbonio è un elemento capace di formare catene complesse e molto flessibili. Così come anche la vita che conosciamo è complessa, e deve essere flessibile per adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali e sopravvivere. L’acqua poi è un solvente universale, può sciogliere molte sostanze, e trasportarne gli elementi atomici dentro e fuori le cellule viventi. Da qui discende il motivo per il quale cerchiamo molecole a base di carbonio in ambienti che contengono acqua allo stato liquido.

L’astronomo Frank Drake ha proposto nel 1961 un’equazione per stimare il numero di civiltà extraterrestri esistenti nella nostra galassia e in grado di comunicare su larga scala. L’agenzia britannica Information is Beautiful ha riproposto l’equazione in questa infografica nel 2013, aggiornandola con nuove stime provenienti dall’istituto Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), e il numero attuale è stimato essere 12. Dodici civiltà attualmente esistenti e in qualche grado comunicanti, solo nella nostra galassia, ma come è noto non solo non abbiamo ancora trovato tracce di vita fuori dal pianeta Terra, ma nemmeno siamo entrati in contatto con qualcuna di loro.

Ma allora dove sono tutti quanti?

Questa è la domanda espressa dal paradosso di Fermi, che offre diverse soluzioni possibili, tutte ragionevoli; anche se nessuna di queste confuta l’equazione di Drake. Sentite le due campane, possiamo concludere che abbiamo bisogno di fare ancora nuove scoperte nel campo, come quella del sistema Trappist-1, per divenire ancor più capaci di predire, con ragionevole grado di sicurezza, che una stella può ospitare la vita nel suo sistema planetario. Quel che mai ci mancherà, fino ad allora e anche dopo, sarà l’immaginazione e, si spera i modi per stimolarla e alimentarla.

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