Etichette da incubo.

di Marco Giannini

L’etichetta è importante

Nutrirsi bene è questione di comportamento, cioè morale: cosa mangiamo, perché ci fa male e perché non lo sappiamo ce lo spiega con semplicità un ragazzo indiano praticante alla IBM, con l’ausilio di un minimo di informazione grafica. Un viaggio nelle etichette da incubo.

Il supermercato rappresenta nel nostro immaginario collettivo la spersonalizzazione dell’acquisto e la sua trasformazione da baratto tra due privati a routine per una moltitudine di individui, i quali comprano tutti le stesse merci, allo stesso prezzo (esclusi eventuali sconti e raggiri), da una catena di distribuzione e non dal produttore. Addirittura, il produttore è allontanato e sostituito da un potentissimo intermediario del quale si comprano i servigi: il distributore.

Fare la spesa al supermercato diventa una operazione da compiere velocemente, in maniera ripetitiva, quasi sotto anestesia, in cambio di una supposta garanzia di qualità. Uguale per tutti.

Quale garanzia? Le catene di distribuzione alimentare, dai manifesti anni ’50 inneggianti all’American way of life alla attuale cristallizzazione artefatta del mall – la quintessenza del consumo di massa – hanno sempre mirato a rassicurare l’acquirente. Che poi oggi si chiama cliente, ma anche in passato era colui che, nell’antica Roma, pur essendo libero si trovava in rapporto di dipendenza da un potente, in cambio di protezione.

Il diavolo al supermercato

La garanzia è – o dovrebbe essere – garanzia di qualità. Trattandosi di cibo e di libero arbitrio, oggi appare importante appoggiarsi a un’autorità esterna, un ente di controllo governativo che certifichi la salubrità dei prodotti e ne regolamenti le caratteristiche. Si conviene quindi – per legge – che basti informare il cliente, poi penserà lui a regolarsi, a tutelarsi, a dotarsi di contromisure, nel processo consapevole di reintegrazione delle perdite materiali ed energetiche che accompagnano le diverse attività funzionali dell’organismo.

Detta così, l’alimentazione suona un po’ artificiale, ma va accettata per quel che è: la trasformazione del cibo in merce va di pari passo con la trasformazione dell’alimentazione in nutrizione, cioè in una funzione regolata dal tempo e dalle possibilità economiche che va incastonandosi tra le altre funzioni quotidiane: portare i figli a scuola, lavorare, fare i conti, ecc. E oggi la nutrizione salubre non è affatto assicurata ma solo propalata dalla corretta informazione alimentare – ammesso che siamo in grado di leggerla – mentre ciascuno di noi ha effettivamente conservato l’arbitrio a mangiar male, a riempirsi di grassi saturi e zuccheri, in cambio di una disponibilità enorme di scelta e varietà.

L’informazione alimentare rimane un affaire di grande importanza, e la sua regolamentazione si pone a metà strada tra l’ingrasso del cliente e l’ingrasso – ma in altro senso – del produttore a buon mercato e del distributore disonesto, o almeno non del tutto dedito a curare la salute dei suoi clienti.

L’insostenibile pesantezza del dessert

Vivek Manon è un giovanissimo designer indiano, attualmente impiegato come praticante nella IBM di Bangalore. Sulla sua pagina di Behance è comparso qualche settimana fa un progetto di ristrutturazione delle etichette nutrizionali, in particolare quelle destinate a descrivere i valori energetici di un prodotto e il contenuto di proteine, grassi, carboidrati e altri composti chimici presenti nei cibi impacchettati in vendita.

Varie ricerche di mercato hanno evidenziato il fatto che quelle etichette stampate in bianco e nero, piene di numeri e percentuali, recanti talvolta il nome e la quantità in milligrammi di 20 o anche 25 componenti, risultano illeggibili per una percentuale molto alta di consumatori, pare oltre il 90% (https://www.theatlantic.com/health/archive/2011/10/study-of-the-day-consumers-see-nutrition-facts-dont-read-them/247166/).

Ecco allora che Vivek Manon ha elaborato un semplice sistema infografico di descrizione della provenienza delle calorie, il quale non abbisogna di spiegazioni ma risulta immediatamente comprensibile e facilmente memorizzabile.

Un tipico prodotto statunitense da supermercato, una crema spalmabile a base di formaggio, servita in fette come il nostro vecchio e indimenticabile Formaggino Mio: sulla sinistra l’attuale etichetta nutrizionale a norma di legge, sulla destra, a colori, la proposta di Manon: la provenienza delle calorie, il cui totale (45) è indicato nel carattere più grande e grassetto, è segnalata dai tre colori indaco, rosso e giallo-oro, rispettivamente carboidrati, proteine e grassi.

Lo scopo del progetto di Manon è rendere chiara e intelligibile a tutti la distribuzione di quei composti e il loro “contributo” calorico; perché se il nostro organismo, quando in buona salute, può scomporre e assimilare molti composti chimici, esso impiega tuttavia tempi molto differenti per assorbire composti differenti, causando pertanto accumuli insalubri di grassi che non vengono smaltiti rapidamente, oppure scompensi energetici dovuti al fatto che il contenuto energetico di un alimento non è a disposizione del corpo quando esso lo richiede, per esempio durante una prestazione sportiva. Anche da qui nasce l’enorme proliferazione attuale di dietologi, alimentaristi dell’infanzia, dello sport, esperti di nutrizione frappostisi con i loro consigli e i loro intrugli tra il nostro piatto e la nostra consueta attività digestiva. Questo progetto, se applicato su larga scala, rischia seriamente di proporsi come pietra angolare del fai-da-te della dieta.

Da notare che il restyling proposto dal giovane designer indiano prevede anche la chiara indicazione del numero di porzioni incluse nel pacchetto e del peso relativo di ciascuna. Il lavoro di Manon migliora un’intuizione del 2011 dovuta alla UC School of Journalism di Berkeley (California)  (https://holykaw.alltop.com/the-difference-between-use-by-sell-by-best-by-infographic), che aveva proposto uno “spacchettamento” grafico degli ingredienti base di un alimento.

Digestione e sentimento

Il problema è particolarmente sentito negli Stati Uniti, dove la Food and Drug Administration ha espedito parecchi tentativi di migliorare la leggibilità delle etichette nutrizionali (dagli anni ’90 in poi) senza riuscire di fatto a scalfire il muro di disattenzione e ignoranza che le circonda. Il risultato è che la maggior parte dei consumatori tende a soffermarsi sulle prime 4 o 5 righe, sottostimando quel che segue, e così non riesce a formarsi un’idea sufficientemente esatta del contenuto calorico di quel che sta mangiando.

L’ultimo tentativo targato FDA risale a pochi anni fa, e sebbene l’amministrazione pubblica abbia rimarcato i propri successi comunicativi con un’efficace campagna stampa a mezzo infografico, l’immagine qui accanto testimonia della scarsità dei progressi compiuti.

Anche in Europa le etichette nutrizionali sono state regolamentate solo di recente: nel 2011 il Parlamento Europeo ha approvato una legge la quale regolamenta e uniforma nell’Unione le comunicazioni al consumatore, che prima di allora erano espresse facoltativamente, o solo nel caso in cui del prodotto fossero pubblicizzate particolari indicazioni nutrizionali. Le comunicazioni sono diventate obbligatorie da circa un anno (nel dicembre 2016) ma rimane esentata dall’obbligo di dichiarazione una lunga lista di prodotti “primari”: dall’acqua in bottiglia ai prodotti non trasformati a base di un singolo ingrediente, dal sale al caffè, dall’aceto alle gomme da masticare e via dicendo.

In generale, le etichette alimentari europee devono riportare nel seguente ordine:

– energia (kJ, kcal)

– grassi,

di cui acidi grassi saturi,

– carboidrati,

di cui zuccheri,

– fibre (su base volontaria),

– proteine,

– sale (inteso come sodio, di qualsiasi fonte, per 2,5).

La dichiarazione (che può essere anche più lunga e dettagliata) va sempre riferita ai 100 grammi o millilitri di prodotto, con facoltà di aggiungere i dati per porzione, purché essa sia chiaramente espressa e si riporti il numero di porzioni contenute nell’unità di vendita. I dati sulle vitamine e sui sali minerali devono inoltre essere espressi anche come percentuale della razione giornaliera raccomandata (RDA).

Viaggio al termine delle note

Insomma più che per informare il consumatore, l’etichetta sembra concepita per tutelare il produttore e metterlo al riparo da eventuali reclami, in qualsiasi forma, soprattutto quella legale. Visto che il prodotto industriale è per sua concezione destinato al consumo di massa, a fronte di ingenti investimenti nella ricerca e nella diffusione, si capisce come il grande spauracchio di tutti i produttori sia la class action, di recente introdotta anche in Italia, ma risalente all’800 negli Stati Uniti e addirittura riscontrabile in documenti inglesi del Basso Medioevo. Oltre al rispetto della legge, c’è poi una più generale questione di rispetto per chi legge, che dovrebbe salire al posto più alto tra le preoccupazioni di chi scrive: perché quando uno dice o scrive qualcosa, lo fa per essere compreso.

Un altro settore merceologico in cui l’intuizione e l’approssimazione prevalgono sull’esatta comunicazione è quello che riguarda i medicinali. Qui si obietterà che quelli acquistabili senza prescrizione medica sono pochi e quasi del tutto inoffensivi, in altre parole la tutela del cliente è ancora assicurata. Ma la piena comprensibilità di un bugiardino risulta solitamente irraggiungibile per un lettore comune, e anche chi è abituato a una specialità può trovarsi a non ricordare esattamente il dosaggio.

I neerlandesi, che nella comunicazione visuale eccellono, da anni propongono una volgarizzazione delle indicazioni basilari anche sulle drugs: qui  sono raccolti gli sforzi della FIP per diffondere la comunicazione visuale anche nel commercio di medicinali. Per ora, almeno in Italia, non ce n’è traccia.

Un buono standard è stato universalmente raggiunto nella comunicazione visuale sulle etichette dei vestiti: dapprima inserite nei capi di vestiario come pezzetti di tessuto dai lavoratori delle maglierie del cotone, divennero un emblema dell’influenza dei sindacati delle lavoratrici tessili. Negli anni Settanta il Ladies Garment Workers’ Union acquisì una certa notorietà grazie a degli spot televisivi in cui alcune donne iscritte al sindacato cantavano il motivetto “Look for the union label”.

Prima di allora, la svolta nella caratterizzazione delle etichette è arrivata nel 1960, l’anno della promulgazione negli Usa del Textile Fiber Products Identification Act: da quel momento le aziende produttrici di abbigliamento furono ufficialmente obbligate a specificare di quali tessuti era composto l’indumento in questione, in parte una risposta al proliferare di capi a composizione mista, ed era ufficialmente il primo mattone della costruzione degli standard odierni. A dieci anni di distanza, la Care Labeling Rule, istituita dalla Federal Trade Commission, stabilì che all’interno di magliette e pantaloni fossero contenute istruzioni su come lavare il capo in questione. Da allora quest’ultima legge è stata aggiornata qualche volta, ma mantiene il suo impianto originario. E, come spiega Atlas Obscura, la comunicazione visuale delle etichette del vestiario si è diffusa worldwide.

 

Per chi suona la campagna (pubblicitaria)

Per finire, è bene ricordare che in materia di comunicazione commerciale esistono studi molto seri, di matrice sociologica e psicologica, che sfiorano soltanto il lato visuale (per ora). Un utile approfondimento sull’economia comportamentale e il framing  l’ho trovato in questo articolo  – solo apparentemente banale – di Fabrizio Ghisellini.

 

Ultime sulle etichette

per il 2018 (anche quelle per gli insetti) le trovate qui

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